Centri commerciali Usa a rischio dopo la chiusura delle grandi catene, protagoniste di alcuni del maggiori fallimenti dell’ultimo anno. L’effetto domino inizia sul web.
La crisi delle grandi catene di abbigliamento minaccia i mall americani. La chiusura dei negozi di grande superficie, infatti, sta generando un effetto domino sui centri commerciali, in difficoltà nel riempire gli spazi lasciati vuoti da quelli che un tempo erano nomi di riferimento per lo shopping. L’ondata di dismissioni che ha investito i grandi retailer si estende dagli Stati Uniti al Regno Unito e ad altri Paesi europei, mettendo in forte discussione formule commerciali che non hanno un posizionamento identificato e che oggi accusano lo spostamento online degli acquisti. Per quanto riguarda il mercato a stelle e strisce, fa notare il New York Times, in un momento in cui i consumi si polarizzano tra ipermercati discount (per i lavoratori a salario minimo) e department store di lusso (per la fascia high spending), il mall tradizionale abbraccia un modello trasversale che non trova pubblico e che, dal 2006, registra una percentuale crescente di spazi vuoti.
IL CASO DI SEARS
Emblematico, tra le grandi catene nordamericane, è il caso di Sears, insegna fondata nel 1886 a Chicago e basata dapprima su vendite per catalogo, che oggi conta 683 store attivi contro gli 873 del 2005, anno della sua acquisizione da parte di Esl Investments e del merger con Kmart. Secondo un report di Credit Suisse, la fase difficile attraversata da Sears metterebbe a rischio il futuro di oltre 200 shopping mall: la chiusura di circa il 22% degli spazi commerciali del retailer negli ultimi dieci anni, e la previsione di ulteriori dismissioni, può infatti provocare una reazione a catena nei centri commerciali che ospitano l’insegna e che faticano a rioccupare i grandi spazi lasciati liberi da questa. “Alcune di queste location – si legge nel report – hanno un alto potenziale e possono essere ricollocate, come dimostra l’interessse da parte di Primark per 10 store. Il problema è come Sears Holding Corporations gestirà i punti vendita di qualità inferiore, che rappresentano una grossa fetta della store base ancora attiva”. Peraltro i complessi commerciali di aree periferiche partono già da una preesitente difficoltà finanziaria. A guidare le stime di Credit Suisse sull’attuale effetto domino nei mall, è il caso Montgomery Ward, retailer che ha dichiarato bancarotta nel 2000 e che, in un solo anno, ha registrato la chiusura di 250 punti vendita, condannando alla stessa sorte il 33% dei centri commerciali in cui era presente. “Utilizzando gli stessi parametri per gli shopping mall di medio-bassa qualità in cui Sears è presente – spiega la banca elvetica – si deduce che circa il 30% di questi è a rischio chiusura. Saranno circa 200 i mall in pericolo se il gruppo dovesse attuare ulteriori ristrutturazioni del retail network per fare fronte ai suoi problemi finanziari”.
UN FORMAT IN CRISI
Il 2016 ha registrato la caduta di diversi giganti del retail americani ed europei, incapaci di adattarsi al cambiamento delle abitudini di consumo delle persone, che si servono sempre meno nei grandi magazzini o nei centri commerciali, preferendo l’offerta e i servizi dei principali portali di e-commerce. Risale allo scorso giugno la chiusura di British Home Stores (Bhs), catena inglese di grandi magazzini di abbigliamento e biancheria per la casa, fondata nel 1928 e protagonista del maggiore fallimento del settore nel Regno Unito dopo quello dei grandi magazzini Woolworth nel 2008. Grazie all’acquisizione del brand, della divisione franchising internazionale e dei nomi a dominio registrati da parte del gruppo del Qatar Al Mana, Bhs potrebbe ora conoscere una nuova fase di sviluppo, anche se la nuova proprietà non ha ancora annunciato l’eventuale riapertura di store in Gran Bretagna. Tornando dall’altra parte dell’Atlantico, lo scorso agosto Macy’s ha annunciato la chiusura di 100 dei suoi 675 punti vendita nel Paese, dirottando le proprie risorse sui negozi più redditizi, ingrandendoli e investendo sulla qualità dei prodotti e sulle nuove tecnologie. A questi annunci si è aggiunto il crollo di Aéropostale, il retailer di moda per teenager che ha ottenuto dal tribunale di New York la protezione dai creditori tramite la procedura di Chapter 11 ed è stato salvato dalla chiusura, dall’offerta di 250 milioni di dollari di una cordata guidata da Authentic Brands. Quest’ultima si è impegnata a mantenere attive circa 200 vetrine dell’insegna, anche se all’ordine del giorno della nuova proprietà c’è soprattutto lo sviluppo del canale online.
LA SFIDA DELL’E-COMMERCE
Per i retailer di abbigliamento, del resto, la partita del futuro si gioca sull’equilibrio tra le percentuali di acquisto in store fisici e quelli via web. “L’e-commerce – si legge in un altro report di Credit Suisse – che nel 2015 rappresentava il 16,7% delle vendite del settore apparel negli Usa, ha il potenziale per raggiungere una quota del 37,5% entro il 2030”. Parallelamente l’incidenza degli store fisici passerebbe dall’83,3% del 2015 al 62,5% nel 2030.
di Giulia Sciola