Secondo Ludovica e Roberto Palomba, il settore è indietro rispetto al fashion per limiti di dimensione e cultura che frenano la voglia di osare. Che va risvegliata.
“Quant’è indietro l’industria del design!”. L’inizio che non t’aspetti, nel dialogo con due architetti che vantano collaborazioni con brand quali Kartell, Bisazza, Foscarini, Driade e molti altri, con uno storico di rilievo nel mondo delle ceramiche e dei rivestimenti. Per Ludovica e Roberto Palomba, fondatori dello studio Palomba Serafini associati, il confronto va in automatico con la moda: la differenza tra i due ambiti è fatta non solo di ‘zeri’ applicati ai fatturati, ma anche e soprattutto di cultura e strategia. Moda e design in Italia, raccontano, sono entrambi nati e cresciuti a livello industriale, nel secondo dopoguerra, per soddisfare le esigenze di uomini e donne cui quelle stesse funzioni erano state fino ad allora negate. Poi però l’industria del fashion, nelle sue rapide trasformazioni, ha offerto al consumatore la possibilità di esprimere se stesso, fino a sposare l’anti-moda, affermandosi come fenomeno di massa ed economia straordinaria. E il design? È rimasto mediamente “piccolo”, dalla visione (elitaria) alle dimensioni (provinciali) fino all’assenza di managerialità nelle sue imprese, con tutto ciò che di negativo ne è derivato sotto il profilo economico e strutturale, e che lo ha reso preda di gruppi e fondi di investimento. Per il progettista, nella dicotomia tra piccolo e grande, il pro è rappresentato dal confronto diretto con l’imprenditore, che diventa “condivisione di un percorso dell’anima”, mentre con gli staff delle holding si limita a realizzazione di obiettivi ben definiti, che però funzionano…
Il contro, invece, è dato da un certo modus pensandi della controparte, dalla volontà di ricostruire le glorie di un passato che non può più tornare, dalla paura di osare. E nel mondo delle ceramiche industriali? Va anche peggio. “Gli imprenditori delle piastrelle – sostiene Roberto Palomba – hanno fatto qualcosa di straordinario in termini qualitativi, basti pensare ai grandi formati, ma il loro prodotto non ha identità. È rimasto bidimensionale, riproduzione/imitazione di temi come legno o pietra, e difficilmente esce dalla cucina o dal bagno proprio perché è vittima di un approccio esclusivamente tecnico”. “La ricerca, in quel mondo, è marginale”, rincara Ludovica, pur evidenziando il contributo positivo che il ‘finto legno’ o la ‘finta pietra’ hanno offerto in termini di salvaguardia delle risorse naturali, tema assai caro ai Palomba.
La creatività, affermano, è come un virus che punta a invadere ogni ambito della vita umana e per questo non può tollerare barriere create dall’appartenenza dei materiali ad ambienti specifici. C’è spazio per crescere, purché non manchi il coraggio. È una sfida, quella creativa sulle ceramiche, che potrebbe essere rilanciata dalle ricongiunzioni tra mondi possibili, come quella cui puntano i due architetti sulla base della collaborazione che a breve partirà con un grande marchio dell’arredo made in Italy e in cui, dopo anni di distacco, puntano a coinvolgere un brand di piastrelle per “raccontare scenari di interior molto forti, che non rappresenteranno più uno status, bensì l’identità di persone che finalmente escono dagli schemi”.
di Andrea Guolo