Marco Zanini apre i cassetti della memoria, come uomo e come stilista. A partire dai suoi esordi da enfant prodige nel lusso. Da Milano a Parigi con scalo a New York.
Il corpo di Marco Zanini (e, soprattutto, i suoi tatuaggi) raccontano meglio di qualsiasi parola il suo approccio alla vita. Un veliero che naviga alla ricerca di continue avventure è impresso indelebilmente sulla sua mano. E la scritta ‘Lost’, una lettera per ogni dito, fa intuire la propensione, in quel viaggio, a seguire l’istinto, fino a perdersi. Per poi, però, ritrovarsi.
E, in effetti, di porti (quanto meno metaforici), il designer italo-svedese ne ha visitati parecchi: Versace, Halston e Rochas. Adesso, dopo l’uscita da Schiaparelli, lo stilista milanese si concede una meritata pausa. Con un obiettivo, però, più forte di qualsiasi vento in poppa.
[Allo stilista Zanini] Come è iniziato il suo percorso professionale?
Ho avuto esordi fortunati in un momento in cui le cose erano completamente diverse da ora. Mi sono laureato all’Accademia di Belle Arti di Brera e ho iniziato a lavorare senza perdere nemmeno un giorno. Prima, dal designer americano Lawrence Steel a Milano, poi, in Dolce & Gabbana come assistente di Domenico Dolce. In seguito, da Versace, brand che per me rappresentava eccellenza assoluta. Sono entrato all’inizio del 1999 e dopo nove anni ho colto l’opportunità di rilanciare con enormi soddisfazioni Halston. Successivamente, sono stato cinque anni da Rochas. Nel 2013, arriva la nomina in Schiaparelli.
Per Schiaparelli ha realizzato solo due stagioni, come mai?
L’esperienza è terminata dopo un anno e mezzo. Non c’è niente da nascondere. Nella moda, come in ogni ambiente, ci si basa su un gioco di squadra, si può parlare di matrimonio di intenti, di affinità. Certi matrimoni nel lavoro, come nella vita, non si rivelano ideali, di conseguenza molte volte arriva il momento di dividere le proprie strade civilmente, con rispetto e gratitudine. Si è sempre in due, è sempre la squadra a vincere, non è mai il singolo. Se la squadra non trova il proprio affiatamento, la partita non è possibile vincerla.
[All’uomo Marco] Come trascorri le tue giornate in questo periodo di libertà?
Non ho una giornata tipo, essendo curioso di indole non c’è tempo per la noia. Quel che è certo è che non sto seduto in poltrona. Mi piace girare nel mio quartiere, Sant’Ambrogio, tenermi interessato, leggere, comprare libri e riviste. E organizzare viaggi. Adesso andrò due settimane in Giappone, sto studiando meticolosamente un itinerario non turistico nel nord del Paese. Cosa comporta per un designer rilanciare un brand già affermato? Il rilancio è l’opportunità che molti creativi hanno avuto negli ultimi anni, è stato il gioco che ha caratterizzato lo scacchiere della moda. Secondo me, questo gioco adesso è viziato e si vede, i designer durano l’espace d’un matin. Siccome la moda è sempre tesa verso il futuro, probabilmente l’opportunità per noi creativi è da ricercare in nuove formule. Cio che è interessante della moda è il suo flusso, la sua corsa.
Come mantieni acceso il tuo estro?
Le letture, il cinema. In questo momento mi sta appassionando un libro sull’opera di Robert Mapplethorpe. E poi ci sono i film: il cinema per noi creativi è da sempre il mezzo espressivo più evocativo, il più ricco a livello visivo. E a ispirarmi ci pensano i grandi maestri come Bergman e Visconti: ogni volta, vedere un loro film è uno shock estetico.
E che rapporto hai con i social network?
Non sono un fanatico. Ho aperto da poco un profilo Instagram, ma solo per seguire i miei amici: gente del mestiere, giornalisti, make up artist, qualche collega. Ma non mi ha mai interessato condividere aspetti della mia vita con sconosciuti. Forse sono troppo vecchio per considerare amicizia un contatto con un estraneo che vive dall’altra parte del mondo.
Cosa pensa della svolta ‘see now-buy now’ di cui si parla tanto ultimamente?
Questa formula di cui si è tanto discusso non mi affascina, trovo sia una rincorsa a rotta di collo di qualcosa che non si sa nemmeno bene cosa sia. Sono anni che se ne parla, anni che si cercano nuovi strumenti per supportare le vendite e andare incontro all’utente finale con più immediatezza e velocità. Ma a mio parere quella stessa immediatezza smorza e uccide il sogno. La moda si alimenta dal desiderio, che va coltivato e cullato anche nell’attesa. Mentre l’immediatezza è come il fast food, mangi e lo butti via. E anche parlando con i fornitori, ho appurato come facciano già molta fatica a stare al passo con i tempi canonici, immaginiamoci con una velocità ancora maggiore.
Per lavoro hai viaggiato molto e vissuto in città molto distanti tra loro. Quali sono le tue preferite?
Ogni città ha la sua energia, il suo sapere. New York è incredibile, Parigi la metropoli in cui ho vissuto di più, è meravigliosa anche se non è quella che ho amato più di tutte. In cima alla lista per me c’è sempre Milano: mi piace perché è una città sottovalutata, ma ha uno charme indefinibile. Se ci vivi e sai tenere gli occhi aperti offre moltissime opportunità. E poi c’è la Svezia: sono per metà italiano metà svedese, e godo della doppia cittadinanza, appena posso fuggo nel nord della Svezia, di cui sono perdutamente innamorato.
Sarebbe pronto a debuttare con un marchio che porta il suo nome?
Ci sono alcune cose che non ho ancora fatto nella moda e fuori dalla moda, sto mettendo a fuoco l’opportunità di nuove esperienze in ogni ambito. Lavorare per un’altra maison mi piacerebbe, ma allo stesso modo l’idea di una mia linea donna mi affascina. Sarebbe un ready-to-wear, non di certo una couture: con la velocità di cui parlavamo, la couture è morta.
di Caterina Zanzi e Marco Caruccio