Inizio anno da incubo: le Borse asiatiche gelano i listini mondiali. Il Pil cinese è il peggiore da 25 anni. Per EY il calo è fisiologico, ma Cnmi taglia le stime sul 2015.
Il Dragone cinese adesso fa paura. Non più per la sua forza, per la sua voracità nel ritagliarsi un ruolo sempre più determinante nella scacchiera mondiale dei Paesi strategici per la crescita mondiale. Al contrario, sono le crepe della sua economia a rendere tutto più traballante. Un terremoto che, mediaticamente, ha avuto il suo apice nelle prime tre settimane dell’anno con l’avvio in profondo rosso delle Borse di Shanghai e Shenzen che, a cascata, ha fatto tremare quelle di tutto il mondo. Le piazze finanziarie dell’Asia Pacifico sono scese ai minimi da quattro anni nelle prime tre settimane di gennaio, con quella di Shanghai maglia nera che ha lasciato sul terreno oltre il 15 per cento. Due settimane sono bastate ad azzerare i benefici del 2015 dei listini di tutto il mondo: alla terza settimana di quotazioni da inizio anno, la capitalizzazione delle Borse mondiali vale 5mila miliardi di euro in meno. Poi si è aggiunto il petrolio, i cui prezzi sono a caduta libera (e la fine delle sanzioni nei confronti dell’Iran potrebbe portare sul mercato altri barili di oro nero con possibili ripercussioni sul valore del greggio), e la stretta monetaria avviata dalla Federal Reserve, nonché le tensioni geopolitiche internazionali e il nuovo rallentamento delle economie emergenti. Tutti fattori che hanno portato gli economisti del Fondo monetario internazionale a limare le stime di crescita per il 2016. Il Fmi indica che quest’anno sarà del 3,4% e del 3,6% il prossimo, in entrambi i casi con una riduzione dello 0,2% rispetto al precedente report dello scorso autunno.
EFFETTO DOMINO
Insomma, ciò che accade oltre la Grande muraglia è ben più dell’effetto farfalla: è un effetto domino. Dunque, cosa sta succedendo al Dragone? Innanzi tutto, che cresce sì, ma meno rispetto al passato, anzi registra il risultato “peggiore” degli ultimi 25 anni. Nel 2015 il Pil dell’ex Celeste Impero è aumentato del 6,9 per cento. In realtà, il risultato non ha sorpreso gli analisti del Fondo monetario internazionale che avevano anticipato stime della stessa entità, tuttavia la Cina è alle prese con un rallentamento graduale (dovrebbe crescere, secondo l’istituzione di Washington, del 6,3% nel 2016 e del 6% nel 2017) e con il riequilibrio dell’attività economica dall’investimento e la manifattura verso consumi e servizi. L’economia cinese, infatti, è in mezzo al guado di una trasformazione, ovviamente voluta dal governo e messa nero su bianco nel suo ultimo piano quinquennale, da economia totalmente dipendente dall’export verso una maggiore componente di consumi interni. Di fronte ai dati negativi della manifattura (all’inizio di agosto l’indice manifatturiero cinese, il China Manufacturing Purchasing Managers è sceso 47,1 ai minimi da due anni) nel corso dell’estate il governo cinese è intervenuto per tre volte di fila con una svalutazione dello yuan e con misure di sostegno nei confronti delle Borse asiatiche dopo lo scoppio della bolla di Shanghai e Hong Kong partito lo scorso giugno. “La situazione attuale in Cina – ha spiegato Roberto Bonacina, Lead Advisory M&A di EY – è frutto di un mix di cause: in primo luogo, l’eccesso di capacità produttiva dopo anni di investimenti massicci che oggi sono stati drasticamente ridotti. Al momento, le aziende cinesi si trovano a dover fronteggiare il problema dell’indebitamento e della ricerca di mercati esteri di sbocco. Dall’altro canto, proseguono gli effetti della stretta anticorruzione voluta dal Governo”. “Siamo di fronte a una situazione molto meno favorevole rispetto al passato – ha aggiunto Bonacina – ma detto questo dobbiamo comunque tenere a mente il fatto che la Cina è un mercato da oltre un miliardo di persone, dove continua l’incremento della classe media. In più un Pil in progresso del 5 o 6% nei prossimi anni resta comunque un dato positivo. Dobbiamo abituarci a una crescita new normal che non dovrebbe impattare più di tanto sui settori legati ai consumi di beni di lusso e moda in Cina. E non c’è da preoccuparsi nemmeno sul possibile crollo dei flussi turistici in Europa. Riguardano il 10-15% della popolazione, quella più ricca: difficile che cambi abitudini in modo da spostare gli equilibri turistici. Piuttosto, quel che c’è da tenere d’occhio è lo sprint dell’online che ha messo molti marchi internazionali di fronte alla necessità di bilanciare l’offerta tra offline e online con la chiusura di alcune vetrine nelle principali città cinesi”. Nel dubbio, il fashion italiano resta però cauto. Lo scorso dicembre la Camera nazionale della moda italiana ha tagliato le stime di crescita per il 2015 indicando un incremento “non superiore all’1,5% rispetto al 2014” rispetto alle previsioni di inizio anno che arrivavano a +5,5 per cento a causa del rallentamento cinese oltre alla staticità dell’Europa oltre che il drastico calo, in peggioramento rispetto alla prima parte dell’anno, sul mercato russo. Più ottimistiche, invece, le stime del solo comparto uomo. Secondo i dati raccolti da Smi-Sistema moda Italia, dopo un 2015 a +1,8%, a 9 miliardi di euro, il 2016 sembra aprirsi con un certo favore (+11,4% l’export) e qui la Cina, anche in funzione della quota limitata sul totale (3%) non rappresenta una zavorra. Ma i dati sono ancora in calo e la strada per il ritorno in quota è ancora costellata da difficoltà.