Ha chiuso nei giorni scorsi la prima mostra in uno spazio pubblico italiano di quello che Time definisce “il più influente rappresentante della cultura giapponese contemporanea”: Takashi Murakami. Per chi si è affacciato alle porte di Palazzo Reale è stato l’inizio di un viaggio psichedelico nell’immaginazione.
Il personaggio è eclettico e ha sperimentato con la sua arte diversi mondi: da quello frivolo della moda, realizzando una limited edition per Louis Vuitton (come già l’altra artista-ossessiva Kusama, nota per la sua passione per i pois, ndr) all’attualità (molte sue opere si ispirano al disastro di Fukushima).
Attraverso la sua pop-art affronta temi universali come la mutevolezza del proprio posto nell’universo, attraverso rappresentazioni a più livelli di interpretazione, caratterizzati dalla violenza dei colori e dalle immagini mostruose mitologiche, antropo e zoomorfe.
La sua arte si distingue in due periodi, negli anni 2000 ha teorizzato il ‘Superflat’, l’idea di una società e di un’arte uscite dal trauma di Hiroshima, dove le differenze risultano appiattite e la cultura ‘bassa’ si intreccia con quella ‘alta’ facendo nascere uno stile ibrido, ma nuovo. Dal 2011, dopo gli eventi catastrofici del terremoto, dello tsunami e del conseguente disastro nucleare che investirono il Giappone, si apre ad una nuova riflessione detta ‘Superdeep’.
Nelle sue opere si passa da quella che lui stesso definisce “la rappresentazione del perenne stato di adolescenza della società giapponese del dopoguerra” a una nuova dimensione psicologica e sociale che vede il Giappone strappato alla sua noncuranza e scaraventato dentro una maturità improvvisa. Questa seconda fase, andata in scena a Milano, ritrae un personaggio ricorrente, sorta di Piccolo Principe, in piedi su una nebulosa.
Non c’è paura, né dramma in queste opere, piuttosto la serenità e la consapevolezza di non poter fare altro che restare impotenti davanti all’energia e alle forze incontrollabili dell’universo.
Altro elemento ricorrente dei suoi dipinti è il teschio. Montagne di teschi, cascate di teschi che se da un lato sembrano evocare immagini di genocidi, qui diventano catarticamente simbolo di una rinnovata spiritualità. Per controllare il ‘nostro’ destino Murakami richiama, infatti, gli Arhat, figure antiche della tradizione religiosa e artistica nipponica, monaci al servizio di Buddha che accompagnano il ciclo della vita, nel bene e nel male.
Fil rouge della mostra, intitolata appunto ‘Il ciclo di Arhat’, è stata la figura del Buddha che nella scultura ‘Ovale’ rappresenta l’eterno che feconda il presente.
L’effetto catartico della mostra passa attraverso la presa di coscienza dell’inevitabilità del nostro destino elaborando allo stesso tempo il proprio trauma personale e quello collettivo.
Un atto di fede contemporaneo.
Per chi si fosse perso la mostra meneghina, ma volesse sperimentare direttamente la creatività di Murakami, la meta giusta è Venezia dove Palazzo Grassi ha commissionato all’artista giapponese un’opera site specific, e permanente, intitolata The Emergence of God at The Reversal of Fate, in questo caso però ispirata al superflat.