Il mondo della moda è un concetto che non si limita alla catena del prodotto e ai riflettori delle passerelle. C’è un qualcosa di più, che di quel mondo ha acceso il successo nell’ultima parte del secolo scorso, e ne mantiene alto il richiamo ai quattro angoli del pianeta. Parlo di quel composito insieme di giornalismo, comunicazione e pubblicità che ne ha formato il glamour e che, di fatto, ne ha costruito il mercato. Per questa ragione, diventa importante ragionare su come questo universo “ulteriore” sia in piena rivoluzione copernicana.
Per avere un’idea di quanto rapidamente si stiano trasformando gli equilibri, è interessante riprendere la relazione stilata prima dell’estate da un gruppo di lavoro interno al New York Times, composto, si legge, dalle “most forward-thinking minds” della redazione. Il documento, intitolato “Innovation”, prende coscienza di come, per quanto la “mission rimanga quella di fare del buon giornalismo”, non si possa che prendere atto che “il cambiamento senza fine di tecnologia, abitudini del lettore e modelli di business, imponga nuove strategie per garantirsi un’audience”. In questo scenario, le “menti” del NY Times stilano una lista di competitor la cui composizione è emblematica. Ci sono, ovviamente, i competitor storici, ma vengono espressamente citati Facebook, Twitter e Linkedin che “stanno entrando profondamente nel business giornalistico”.
Questo ridisegno dei media ha già imposto profonde scosse al mondo della comunicazione e della distribuzione della moda. Come emerge dal Dossier di questo numero, stanno entrando di prepotenza colossi del web come Amazon, Yahoo ed Ebay, i quali hanno avviato i motori per proporsi quali veri e propri fashion new media (con tanto di campagna reclutamento di firme storiche del giornalismo), con l’intento evidente di abbinare contenuti editoriali e vendite online. Per contro, questi spostamenti hanno provocato la reazione di protagonisti dell’editoria tradizionale. La prima mossa (difensiva) è stata quella di un’alleanza per l’online delle principali concessionarie italiane di pubblicità. Ma sono pronte anche le strategie d’attacco. Per esempio, sono usciti allo scoperto Vogue e Rcs, entrambi decisi a sfidare la realtà 2.0 con nuove piattaforme di informazione-comunicazione-pubblicità dedicati alla moda.
In questo gran bazar, dove tutti cercano di accaparrarsi ogni spazio immaginabile superando i ruoli e alterando i Dna, si aprono scenari nuovi anche per le aziende. Lo chiamano native advertising, è un concetto che racchiude una formula dal potenziale devastante: e se le aziende del lusso, già avvezze a riflettori e telecamere, facessero anch’esse un pensiero a diventare editori? O, quanto meno, a divenire produttori di contenuti semi-informativi da diffondere in questo nuovo carosello senza confini?
Insomma, le griffe che per anni hanno ispirato e tele-guidato lo show mediatico, potrebbero trovarsi in mano un nuovo potere. Quello di produrlo all’origine.
David Pambianco