Impegno nell’utilizzo di pratiche socialmente ed ecologicamente responsabili. Questo in estrema sintesi è quanto emerge dal rapporto annuale di sostenibilità 2013 diffuso da Tiffany, che descrive le attività portate avanti dall’azienda di gioielli in termini di corporate social responsibility (Csr).
Il brand americano, al fianco di progetti di charity e di riduzione di Carbon Footprint, si impone con la forza che solo una realtà leader nel segmento dei diamanti può avere contro il problema definito dei ‘diamanti insanguinati’.
Si tratta del Responsible Mining, l’impegno da parte dell’azienda nell’acquistare diamanti provenienti solo da Paesi che rispondono ai criteri di certificazione del Kimberley Process, un accordo di certificazione volto a garantire che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non vengano usati per finanziare guerre civili. L’accordo è stato messo a punto e approvato con lo sforzo congiunto dei governi di numerosi Paesi, di multinazionali produttrici di diamanti, e della società civile. Inoltre, Tiffany si è impegnata nella promozione di criteri di ‘responsible mining and sourcing’, investendo in Paesi produttori, sensibilizzando e sostenendo politiche governative in linea con questi parametri. Nel 2013, infatti, ha ricevuto il 100% dei diamanti grezzi direttamente da miniere o fornitori noti all’azienda.
“In qualità di leader nell’industria gioielliera – ha commentato il CEO Michael J. Kowalski – crediamo ci sia un imperativo di business e un obbligo morale di controllo verso le nostre attività al fine di supportare l’intera filiera del settore.”
Tiffany partecipa, inoltre, all’opera di sensibilizzazione a favore della campagna contro l’apertura della Pebble Mine a Bristol Bay in Alaska, in linea con quanto sostenuto dalla United States Environmental Protection Agency per il Clean Water Act. Tiffany si è pronunciata affermando che “anche nel caso in cui dovesse essere realizzata la miniera non acquisterebbero mai diamanti da loro”.