“Il casting non si fa per strada, mi sembra”, fa notare scocciata la sciura milanese in una delle puntate più esilaranti dell’ultima stagione de “Il testimone” di Pif. Si lamenta della calca di persone che rende di fatto impossibile camminare sul marciapiede antistante l’entrata di una delle ultime sfilate milanesi. Antistante, mica dentro.
“Ci fotografiamo a vicenda”, spiega uno dei blogger all’entrata dello show di Gucci, alludendo alle centinaia di persone che, di fatto, occupano piazza Oberdan. “La gente non vuole più vedere le modelle, vuole vedere come si veste la gente per strada, è questo il nuovo business”, gli fa eco un ragazzo con la fotocamera in mano, anch’egli appostato sui gradini con fare rapace. Dietro agli obiettivi, in agguato a decine, fotografi che cercano di rubarsi a vicenda lo scatto migliore. Davanti ai flash, svariati personaggi – editor, blogger, comparse varie ed eventuali– che si sfidano a furia di look stravaganti e defilè improvvisati per guadagnarsi un posto al sole.
Le passerelle, ormai, sono più fuori che dentro ai luoghi della moda. Ma dai tempi dell’esordio di The Sartorialist, la creatura di Scott Schuman che per prima ha elevato la fotografia a forma essenziale del blog o, ancora più indietro, rispetto agli scatti di Bill Cunningham, da molti considerato il primo ‘fotografo di strada’ legato alla moda, il fenomeno dello street style pare aver perso di molto in spontaneità e appeal.
Soltanto qualche anno fa, i fotografi di strada – il cui lavoro somigliava più al reportage che alle pubbliche relazioni – cercavano persone vere, da immortalare nei loro abiti quotidiani e immersi nella loro vita ‘reale’. Il successo è arrivato proprio in virtù di questa caratteristica: una certa aderenza alla quotidianità, una fonte di ispirazione per chi guarda, spunto virtuoso per una moda non indotta, ma in qualche modo avvicinabile, riproducibile senza passare dai look book ‘ufficiali’ delle case di moda. Fino al momento in cui, proprio queste ultime, si sono rese conto di poter avvicinare il fenomeno e, anzi, controllarlo in qualche modo. Alla ricerca di un ruolo più attivo sui gradini dei loro stessi headquarter, le grandi maison hanno cominciato a fare dei giornalisti e, in genere, dei cosiddetti ‘operatori del settore’, veri e propri manichini viventi, testimonial comuni e, per questo più spontanei. Almeno in via teorica. Anzi, solo in via teorica.
I protagonisti delle immagini, infatti, hanno capito di essere diventati delle icone fashion e che i propri look potevano avere un valore, anche in termini economici. Così facendo, i servizi di street style sono diventati un ibrido al confine tra spontaneità e marketing, vita reale e spudorato product placement, fino a divenire più patinati degli stessi shooting – di cui, in principio, erano l’antitesi – realizzati per le riviste di moda. Così, Anna Dello Russo, magrissima e abbronzatissima fashion icon e consulente di Vogue Japan, fa il giro del mondo vestita con total look cambiati in serie, che viene difficile pensare non siano interamente forniti dai brand. E le blogger fanno a gara per segnalare ‘sui loro mezzi’ l’ultimo regalo da parte delle case di moda.
Lo street style, insomma, è diventato palesemente indirizzato, sfacciato, tutto fuorché spontaneo e, cosa ben più grave, al limite del noioso. La febbre di guadagno e visibilità setacciati in strada ha contagiato il sistema. Ma, proprio come i fotografi devono ben calibrare la luce per non rischiare l’effetto ‘bruciato’, ad autori e soggetti degli scatti tocca fare più attenzione alla sottile linea di demarcazione tra ‘stile’ e quello che gli americani chiamano ‘showoff’. Esibizionismo autoreferenziale per antonomasia che si brucia da sé.