Quando la protesta diventa virale. Nelle scorse ore è comparso un sito web all’indirizzo gapdoesmore.com, un portale falso dedicato a Gap che richiama la grafica dell’originale, ma che, a differenza di questo, non riporta le foto delle collezioni di abbigliamento e accessori, ma quelle delle lavoratrici del Bangladesh che lavorano per il marchio americano, oltre che per altre aziende occidentali. Il sito, che riporta anche i loghi di tutti i marchi di Gap Inc e un link al sito ufficiale, è stato disconosciuto da Gap Inc. Ogni immagine è accompagnata da slogan a sostegno del Paese che un anno fa è stato colpito dal crollo della fabbrica tessile di Rana Plaza, nella capitale Dacca, che causò la morte di più di 1.100 operai e il ferimento di oltre 2.000, e che realizzava abiti, tra gli altri, anche per l’azienda stelle e strisce. Sul sito appare una serie di impegni, da parte del colosso Usa, a favore dei lavoratori e della società del Paese asiatico. Impegni che suonano, evidentemente, come una forzatura, ottenendo il risultato di evidenziare al massimo il problema. La storia del sito, che è tuttora online, è stata riportata da Wwd, che attribuisce l’operazione agli attivisti che da mesi chiedono al brand di firmare l’accordo Fire and Building Safety, e che non hanno potuto partecipare al meeting annuale della casa di moda che si è tenuto ieri. Gap, nonostante sia stato uno dei promotori di questa alleanza, come altri membri del gruppo non ha mai firmato l’accordo, al quale invece i manifestanti vorrebbero che aderisse. A oggi, l’azienda ha dato il suo contributo alle famiglie delle vittime e ai feriti tramite la propria fondazione attraverso il Rana Plaza Donors Trust Fund, una raccolta fondi gestita dall’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro), sul cui sito Gap compare nell’elenco di chi ha ufficializzato il proprio aiuto accanto a, tra gli altri, Bonmarche, Camaïeu, il retailer spagnolo El Corte Inglés, Inditex (Zara) e le fondazioni di Vf Corporation e Walmart, Mango e Primark.