Dal tradizionale powerdressing alle principesse in blue jeans. La regalità del ventunesimo secolo volta pagina in sintonia con la nuova democratizzazione dello stile e ripristinando l’aristocrazia dell’individuo, annullata dall’omologazione della civiltà digitale.
Fra scandali, abdicazioni e colpi di scena la monarchia torna a far parlare di sé in tutto il mondo. Sarà l’effetto Kate Middleton con la sua gravidanza blasonata, sarà l’anticonformismo bobo griffato Gucci di Charlotte Casiraghi, in dolce attesa mentre il fratello Andrea convola a nozze con Tatiana Santo Domingo vestita Missoni per un matrimonio molto hippy. Oppure, guardando al Medio Oriente, sarà per via del look esotico della prima donna del Qatar, Sheikha Mozah Bint Nasser Al Missned ribattezzata ‘la Grace Kelly del Medio Oriente’, amante di Hermès, Valentino e Dior. E sarà forse anche l’attesa mostra su Cleopatra, ultima regina d’Egitto, che debutterà in ottobre nella capitale al Chiostro del Bramante. Con il Giubileo di Diamante perfino Elisabetta si rifà il look, dopo 60 anni vissuti come irremovibile depositaria dell’ortodossia dell’etichetta di Buckingham Palace osteggiando le trasgressioni di Lady Diana. ‘La principessa acqua e sapone’ che ispirò a Gianni Versace il volume ‘Rock and royalty’, tornata in auge in un patinato libro di Electa ‘Timeless icon’ sponsorizzato da Tod’s e curato da Carlo Mazzoni, è la star del biopic ‘Diana’ di Oliver Hirschbiegel interpretato da Naomi Watts. La pellicola approda a breve sul grande schermo offrendo però già fianco a varie critiche. Intanto la mostra ‘The Queen’s Coronation 1953’ che si conclude il 29 settembre proprio nella reggia dei Windsor racconta con dovizia di dettagli, documenti e materiali suggestivi l’iconografia di Elizabeth, una delle regine più ammirate e popolari del mondo che, nonostante l’overdose di scandali – gli stessi che stanno invece travolgendo la famiglia reale in Spagna – ha saputo tener duro difendendo con le unghie e con i denti il prestigio della corona britannica. Compito tuttora piuttosto arduo, dato che la duchessa di Cambridge ce la mette tutta per rompere gli schemi con i suoi abiti low budget firmati Asos e Topshop e già campioni di incassi nei negozi, accanto agli accostamenti inusuali di colori e modelli. Perché oggi una testa coronata non è più inaccessibile come un tempo: di questa svolta verso uno stile affrancato dalla sudditanza al rigido cerimoniale aulico fece le spese sul patibolo anche Maria Antonietta. La prima forse a intuire, decretando la fine della tenuta ufficiale aulica d’Oltralpe, l’ingombrante robe à la française, che i tempi stavano cambiando e che una regina poteva “fare tendenza” anche mutuando gli stili dettati dalla strada pur di impressionare i suoi sudditi. Prima di lei, come ha sottolineato anche Karl Lagerfeld, la moda aulica era considerata “instrumentum regni” e in un certo senso su quella concezione estetica, ma senza anacronismi, giocano molto gli stilisti di oggi sulle passerelle per il prossimo inverno. Evocando imperatrici assolutamente lontane dalla crisi attuale ma perfette interpreti di un’opulenza moderna che giustifica abiti intessuti d’oro e pietre e stampati a mosaico abbinati a capigliature composte in chignon e sormontate da tiare sontuose secondo l’immagine preziosa voluta da Dolce&Gabbana.
Teodora, a cui i due stilisti palesemente si richiamano, è forse l’esempio più perfetto di una regalità “smaterializzata, intangibile” come la definisce la semiologa Patrizia Calefato nel suo libro ‘La moda oltre la moda’ edito da Lupetti. “Elisabetta I, vergine regina d’Inghilterra [….] manifestava l’intangibilità del suo corpo di donna anche attraverso il suo modo di mostrarsi in pubblico, i suoi abiti e la sua acconciatura”, scrive Calefato. Non a caso ricordano proprio i verdugali e le fitte gorgiere inamidate della figlia di Enrico VIII le creazioni ieratiche, debordanti reticoli di perle, fregi dorati, maschere e imbottiture d’acciaio, disegnate da Sarah Burton per Alexander McQueen, in omaggio alla grande tradizione della regalità inglese, sulle tracce della stilista Vivienne Westwood che sul mito di The Queen ha elaborato la sua poetica rivoluzionaria. I simboli tradizionali del potere regale, soprattutto le coroncine, campeggiano anche sulla testa delle modelle di Lanvin, mentre gli abiti da gran sera di Alberta Ferretti e le mise di Emilio Pucci, apprezzate da Mette Marit di Norvegia, rinverdiscono i fasti delle corti della Belle Époque. La voglia di ripristinare una vera aristocrazia spesso produce strani risultati soprattutto in Oriente: i paperoni con gli occhi a mandorla, grandi fan del serial tv ‘Downton Abbey’, stanno arruolando autentici maggiordomi inglesi per consolidare i costumi della nuova élite globale nel segno dell’esclusività. Sta di fatto però che oggi dell’apparenza, anche di quella dei monarchi in manto bordato d’ermellino, non ci si accontenta più anche se in fondo perfino a chi porta uno scettro si applica una regola ormai universale: sei sempre ciò che indossi. Quindi anche se hai la corona devi portarla per sedurre il popolo e non per incutergli soggezione. L’abito aiuta a differenziarsi e a definire un atteggiamento personale anche quando non si è nati col blasone o col sangue blu nelle vene. In questo caso emblematico è il capitolo di Valentino amato dalle regine e dalle donne comuni: le sue dame incedono in romantiche cappe decorate da ricami rinascimentali e in abiti smerlati ispirati al Seicento Olandese e alle porcellane di Delft. Sono le ambasciatrici di una sensibilità condivisa da donne convinte che il fascino della regalità si misura sul potere seduttivo legato a un’immagine realmente innovativa.
di Enrico Maria Albamonte