Domani sarà passato un anno dal crollo della fabbrica tessile del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, nel quale morirono più di 1.100 operai e ne rimasero feriti oltre 2.000. Prima di quel mercoledì mattina 24 aprile, l’edificio era una grande industria di vestiti. Dopo il crollo si è trasformata in un cumulo di macerie, ma, soprattutto, di polemiche e accuse ai marchi occidentali che producevano nel Plaza alcuni dei loro capi.
A loro è stato chiesto di versare il denaro necessario per permettere ai feriti e alle famiglie delle vittime di ricostruire le loro vite. Grazie a un accordo siglato dal governo bengalese, insieme con rappresentanti sindacali e dell’industria tessile e le Ong, è nato il Rana Plaza Donors Trust Fund, una raccolta fondi gestita dall’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro). Sul sito è stato pubblicato l’elenco di chi ha ufficializzato il proprio contributo. Tra le aziende di moda compaiono Bonmarche, Camaïeu, il retailer spagnolo El Corte Inglés, Inditex (Zara), le fondazioni di Gap, Vf Corporation e Walmart, Mango, e Primark che ha già contribuito con un milione di dollari e ne pagherà altri 10. In totale, le donazioni hanno superato i sette milioni di dollari (al 17 aprile 2014) che, aggiunti al contributo extra del retailer irlandese, arriveranno a quota 15,3 milioni. L’obiettivo del fondo è raccoglierne 40, da destinare a oltre duemila persone.
Alcuni marchi hanno dichiarato che non contribuiranno, perché la loro produzione è stata affidata alla fabbrica di Dacca a loro insaputa, oppure si è conclusa tempo prima, mentre altri hanno detto di preferire dare il proprio sostegno in maniera autonoma.
Subito dopo la tragedia, tra i primi nomi a essere collegati al palazzo di Rana Plaza sono state le aziende Ether Tex, New Wave Bottoms, New Wave Style, Phantom Apparels e Phantom Tac. In seguito, altri brand hanno ammesso l’esistenza di rapporti con queste fabbriche, tra cui Primark (UK / Irlanda), Bonmarchè (UK), Joe Fresh (Loblaws, Canada), El Corte Ingles (Spagna) e la spagnola Mango.
Infine, sono spuntati anche riferimenti all’italiana Benetton, che, nel maggio 2013, aveva ammesso di aver prodotto alcune camicie nella fabbrica, dopo che erano state scoperte alcune etichette del marchio tra le macerie dell’edificio crollato, assieme a quelle del colosso svedese H&M, di Primark, del canadese Joe Fresh e dell’americano Wal-Mart. L’ammissione da parte del gruppo di Ponzano Veneto, come di altre aziende, è stata l’occasione per puntare i riflettori sul labirinto di appalti e subappalti che tengono in piedi il sistema della moda a buon mercato, rendendo a volte impossibile tracciare con certezza il cammino di magliette e jeans dalla fabbrica al consumatore.