‘Cari’, vecchi jeans. Creati 140 anni fa da Levi Strauss, commerciante di tessuti bavarese immigrato negli Usa, sono sempre più ‘premium’. i cinque tasche oggi risplendono di una luce luxury e ampliano la clientela: uomini e donne, ‘puristi’ o fashion victim dallo spirito innovatore, concentrati sulla performance oppure sul fit.
Dopo un periodo buio iniziato con la crisi economica del 2007, il jeans d’alta gamma è tornato un prodotto ‘hot’. L’ultima notizia sono le recentissime inaugurazioni di due macro–aree ad esso dedicate nei department store londinesi Harrods e Selfridges. Oltre 800 metri quadrati destinati a diventare 3mila nel primo, 2.400 nel secondo, con tanto di personal shopper e servizio tailoring. E confermano il revival anche i dati di Npd da cui emerge che, nell’anno concluso a febbraio 2013, il segmento in più rapida crescita negli Stati Uniti è stato quello premium (sopra i 75 dollari), +17% rispetto all’anno precedente, per un valore di 1,4 miliardi di dollari (pari a circa 1,08 miliardi di euro al cambio del 23 maggio 2013). Solo due anni fa, non aveva ancora raggiunto il tetto del miliardo di dollari. Inoltre, fatto ancor più rilevante, le unità di jeans premium vendute sono aumentate del 16%, a 13,5 milioni di paia. Il settore in generale, invece, è cresciuto solo del 7% in valore ed è rimasto in linea con lo scorso anno in volumi. Come dire: i jeans piacciono, quelli ‘luxury’ di più. Ma che cosa rende i pratici e resistenti pantaloni blu nati dal fustagno di Genova (in francese ‘de Geanes’, da cui il nome ‘jeans’ mentre ‘denim’ viene dalla città francese di Nimes, dove veniva prodotto un tessuto simile) un capo premium? La nobilitazione del jeans non è certo avvenuta in tempi recenti. Su chi ne sia stato il fautore, le opinioni di esperti e addetti ai lavori del settore seguono tre diversi filoni.
LE TRE ORIGINI: TRA GRIFFE, VENETO E L.A.
Secondo alcuni, il denim si è fatto premium quando, negli anni Ottanta, i brand della moda hanno iniziato a includerlo nelle loro collezioni. Il jeans griffato, accessoriato e cool, ha spopolato a livello planetario grazie a campagne come quella di Calvin Klein, datata 1980, con l’allora 15enne Brooke Shields. Ma anche a nomi come Fiorucci, con i suoi modelli sexy e a tutto colore, Armani, che dei jeans ha anche fatto una label, Moschino, che ha giocato con fiocchi e fantasie o li ha tramutati in abiti con la cintura come collana.
Una seconda teoria vede le origini del denim deluxe sempre negli anni Ottanta, ma legate a quella che alcuni considerano la patria del moderno denim made in Italy: il distretto del Veneto. Qui, appunto nei primi anni 80, Adriano Goldschmied, protagonista nella nascita dello sportswear con brand come Americanino e Goldie e ritenuto tuttora il guru del jeans a livello mondiale, raccolse intorno a sé una serie di energie industriali e creative che diedero vita al Genius Group. Al suo interno si formarono gli allora poco più che ventenni Claudio Buziol e Attilio Biancardi, Enzo Fusco e Renzo Rosso. Forti dell’esperienza con Goldschmied, i primi due fondarono Replay, Fusco la Fgf Industry e Rosso la Diesel. Aziende che, a colpi di ricerca e investimenti in comunicazione e immagine, hanno fatto dei cinque tasche un oggetto di culto.
Secondo un terzo filone, poi, lo sviluppo del premium denim è avvenuto in tempi più recenti. “Il denim luxury è nato con 7 for All Mankind – afferma Trevor Harrison, design director di Pepe Jeans -. Seven è stato il primo a creare modelli con un fit perfetto, studiato per esaltare le forme femminili. E anche il primo marchio denim per cui sono impazzite le star di Hollywood”. 7 for All Mankind è stato lanciato nel 2000 a Los Angeles con l’idea di portare una nuova eleganza e raffinatezza nel mondo del cinque tasche. Lo squiggle, il ricamo sulle tasche posteriori, è divenuto un’icona anche grazie alle numerose star di Hollywood che lo indossavano, portando al marchio grande notorietà. Sulla scia di 7FAM – acquisito nel 2007 da VF Corporation – sono poi nati una serie di altri brand californiani, come Lucky Brand, True Religion, Citizens of Humanity o Rock&Republic. La Città degli Angeli, dove oggi vive anche Goldschmied che vi ha fondato i marchi AG prima e Goldsign poi, è divenuta così una sorta di ‘Veneto d’America’.
Se sulle origini le idee sono diverse, sul denim premium contemporaneo c’è una certezza: finita l’epoca della logo-mania e dello shopping sfrenato, perché il consumatore spenda, soprattutto in un mercato affollato come quello del jeanswear, bisogna differenziarsi e garantire un reale contenuto reale. In questo senso, le direzioni prese dai brand – sempre più specialisti – e dagli altri protagonisti del processo di produzione sono tre.
PAROLA D’ORDINE: ECO-FRIENDLY
Soprattutto sul fronte della produzione, ma in qualche caso anche dei marchi stessi, il diktat è l’ecosostenibilità. È il caso del Cone Denim, il produttore americano con alle spalle oltre cent’anni di storia, dopo aver rischiato la bancarotta nel 2004 è tornato in auge scommettendo su tessuti eco-conscious, per esempio con fili riciclati derivanti da contenitori in plastica. Il jeans, infatti, è uno dei prodotti con il processo di produzione più inquinante nella moda. Per un solo paio occorrono quasi 9.500 litri d’acqua, usati per immergere la stoffa in ben 15 vasche di tintura. E oltre alle acque di scarto, vengono applicate grandi quantità di additivi chimici. Lo spreco d’acqua assume così proporzioni enormi, considerando che ogni anno vengono prodotti 2 miliardi di jeans nel mondo. Per Clariant, multinazionale chimica svizzera con una divisione dedicata al tessile, nella ‘nuova era del denim’ il fashion sostenibile sarà un must. Il gruppo ha dunque sviluppato Advanced Denim, un processo di tintura che utilizza una sola vasca e tinte di nuova generazione che non contengono indaco. “Grazie a questa tecnica – ha spiegato Julio Perales di Clariant, incontrato in occasione di un seminario sui lavaggi organizzato dal colosso turco del denim Isko – le altre fasi della produzione vengono eliminate, con un risparmio, per un paio di jeans, del 92% di acqua e del 30% di energia. E Advanced Denim consente anche circa l’87% in meno di rifiuti di cotone, solitamente bruciati immettendo Co2 in atmosfera”. Presentata nel 2010 e premiata nel 2012 con il prestigioso Icis Innovation Award, questa soluzione non ha ancora trovato grande impiego. “I consumatori sono poco interessati all’aspetto eco-friendly – ha osservato Perales – mentre i creativi sono attenti al look”. Per questo Clariant ha sviluppato nuove varianti di colore riproducibili con Advanced Denim.
Anche per Martelli, tra le più famose lavanderie mondiali, il futuro è green. Il gruppo italiano ha iniziato a fare ricerca in questo senso dal 2000. Oggi, ha intensificato gli sforzi e sviluppato tecniche come il laser, il lavaggio eco-dirty, basato cioè su minerali naturali, o il vegetal indigo dye, che utilizza l’ozono. L’ultima frontiera è l’iceblasting, evoluzione del tradizionale sandblasting (sabbiatura). Quest’ultima, se svolta senza le dovute precauzioni, può provocare gravi danni ai polmoni come la silicosi. L’iceblasting, invece, è effettuato con ghiaccio secco al posto della sabbia e impiega meno acqua e agenti chimici. Un trattamento, però, ancora piuttosto costoso. “Stiamo lavorando per abbassare i prezzi e dare al denim così trattato un look ancora più vintage”, ha spiegato il responsabile vendite della filiale nei pressi di Bologna.
Se per i big l’ecologia passa soprattutto per il monte della filiera, vi sono marchi più di nicchia, soprattutto al Nord, che sulla sostenibilità hanno costruito anche la propria identità. È il caso dello svedese Nudie Jeans, che si è affermato la filosofia del “denim come una seconda pelle”. Da qui il nome, i modelli aderenti alle forme, ma anche l’approccio sostenibile che lo porta a impiegare cotone organico al 100% per tutti i capi. Il marchio Kuyichi, fondato nel 2001 dalla Ong olandese Solidaridad, è tra i pionieri della produzione ecologica e del denim organico. Persino i rivetti sono nickel-free e le toppe in pelle riciclata. Tuttavia, come ha dichiarato il brand director Nur Basaran in un’intervista, “il denim al 100% sostenibile non è ancora possibile. Alcuni agenti chimici sono necessari per dare il giusto look, senza cui non si venderebbe affatto”. Ma, secondo Basaran, passi in avanti sono stati fatti: “Solo pochi anni fa, nessuno si poneva nemmeno il problema”. In Italia, infine, un esempio di marchio dall’anima green è Haikure. Il giovane brand ideato da Federico Corneli e nato in casa del produttore CS Jeans si pone il rispetto dell’ambiente e delle persone come missione e parla a un consumatore consapevole. “Abbiamo dotato ogni paio di jeans di un Qr code apposto sull’etichetta – ha raccontato Corneli -, da cui il consumatore può identificare la tracciabilità del capo e risalire a tutti i passaggi della filiera produttiva”.
NON SOLO JEANS
Modellante, drenante, tridimensionale. I cinque tasche premium non sono più solo jeans. Una seconda via di differenziazione è l’offerta di un quid in più, nel fit o nelle performance. Negli ultimi anni lo skinny fit e il ‘jeggings’, ibrido tra jeans e leggings, hanno vissuto un vero e proprio boom. E, su questa scia, la ricerca nello stretch ha fatto grandi passi in avanti. Se fino a sei-sette anni fa esistevano solo jeans stretch o non stretch, oggi ci sono almeno cinque diversi tipi di stretch, che differiscono per il grado di elasticità e di ‘recovery’, il ritorno di elasticità. E ciascuno di questi tessuti, se di qualità, può essere lavorato con tutti i tradizionali trattamenti del denim. Un particolare tessuto, brevettato da Isko, è il Recall in Shape, che ha un ritorno di elasticità doppio rispetto a un denim normale e quindi mantiene la forma anche se indossato a lungo. Fornarina lo ha utilizzato nella linea Perfect Shape (venduta a 120 euro circa), la cui prima collezione, la P/E 2013, ha avuto un sell-out altissimo. “Per il prossimo inverno lo riproporremo in molte più varianti di colore”, fanno sapere dall’azienda. Altra innovazione del gruppo turco è la tecnologia Reform, un tessuto denim modellante adottato da numerosi brand e applicato soprattutto ai jeggings. In sostanza, il Reform agisce come lo Spanx, la celeberrima guaina contenitiva che ha spopolato tra le donne. Anche 7 For All Mankind punta sul denim shapewear e da giugno lancia nei propri store e rivenditori Slim Illusion, una tecnologia applicata al modello The Skinny. Il jeans a effetto seconda pelle è costruito con tessuto super stretch che promette di far sembrare chi lo indossa come minimo una taglia di meno. E il prezzo al pubblico parte da ben 220 euro.
Se i jeans modellanti comprimono, il Pop-Up Jeans, brevettato da Gas, aggiunge volume dove serve. Il nuovo cinque tasche superskinny del marchio vicentino, infatti, ha in dotazione due coppe anatomiche. Queste, inserite nelle taschine interne sopra i glutei, li rendono pieni e rotondi.
Una seconda frontiera del denim premium al femminile è poi quella del jeans ‘terapeutico’. Puntando sulla ricerca – e senza tralasciare il marketing – alcuni marchi propongono modelli con proprietà benefiche. Ad esempio, Wrangler ha creato Denim Spa, un jeans che grazie al trattamento con estratto di aloe vera brevettato da Skintex, ha un effetto anticellulite. E lo vende a un prezzo relativamente basso, ovvero 100 euro al paio. Più cari (oltre 200 euro) sono invece i jeans cosmetici Eve di LeRock, che in 28 giorni promettono una riduzione di fianchi e lato B grazie a microcapsule che, a contatto con la pelle, rilasciano una sostanza ad azione lipolitica che favorisce la microcircolazione. Per l’uomo, la ricerca del fit perfetto esce dagli schemi delle due dimensioni.
Il primo a creare un denim 3D è stato G-Star Raw. L’idea di costruire un denim che seguisse il movimento del corpo è venuta a Pierre Morisset, capo stilista del brand olandese, vedendo i pantaloni fradici di un motociclista: le ginocchia erano gonfie sul davanti e stropicciate sul retro e il tessuto aveva mantenuto quella forma anche una volta sceso dalla moto. Il frutto della ricerca di Morisset è il G-Star Elwood, nato nel 1996. Da allora G-Star ha venduto oltre 13 milioni di paia di Elwood e la sperimentazione è andata avanti. Oggi il 3D riguarda anche la collezione femminile e alcune giacche. E G-Star ha realizzato un jeans trattato con particolari resine ed enzimi che permettono letteralmente di ‘cuocerlo’ direttamente sulle gambe dei manichini. “La nuova frontiera per G-Star – fanno sapere dall’azienda – è lo sviluppo di questa tecnologia. Oggi è l’equivalente nel jeans di una concept car nelle auto. Ma nel futuro vogliamo una produzione su scala industriale”.
DENIM DA COLLEZIONE
Una terza via per affermarsi nell’universo del cinque tasche contemporaneo è l’esclusività. Gli amanti del denim, alle prese con un’offerta sempre più vasta e trasversale, cercano la differenziazione dalla massa. Di conseguenza, da un lato i big del settore si attrezzano per offrire modelli sofisticati, vintage, pezzi unici o tailor-made. Dall’altro, emerge una schiera di marchi più piccoli che, specializzandosi nel denim artigianale, si ritagliano la propria nicchia del mercato.
Sempre G-Star, lo scorso febbraio, ha lanciato il Raw Tailored Atelier, un servizio itinerante nei multibrand in tutto il mondo che consente di personalizzare i propri jeans. Con i consigli degli esperti del brand, il denim viene tagliato su misura e rifinito a mano e il cliente può sceglierne tutti i componenti, come rivetti, bottoni, filo, toppe, fino all’etichetta interna ed esterna. Il tutto realizzato con il denim Red Listing, un tessuto giapponese lavorato con telai a navetta d’epoca, impiegando quindi quasi nove volte più tempo rispetto a un telaio moderno. Anche il marchio abruzzese Re-Hash scommette sul denim di alta qualità e lavorato fino a renderlo quasi unico. “Nel nostro Dna c’è la ricerca sui trattamenti e sulle tele, soprattutto per la parte premium della collezione – afferma Paola Merlini, responsabile dell’ufficio prodotto -. Lavoriamo a stretto contatto con la nostra lavanderia e i fornitori, italiani e giapponesi”.
“Il futuro del denim – dice Guido Biondi, direttore creativo di Roy Rogers – per noi è nel vintage. Questo si traduce nella ricerca dei tessuti, delle coloriture e degli accessori, per renderlo contemporaneo” . Il marchio del gruppo fiorentino Sevenbell, produttore del primo blue jeans italiano nel 1949, ha il vintage a stelle e strisce nel Dna. E lo trasferisce soprattutto nella sua linea premium, chiamata Rugged, realizzata in Italia con tela madre importata dal Giappone e venduta a prezzi tra i 170 e i 200 euro. Il denim giapponese è sinonimo di altissima qualità. Lo stesso vale per quello cimosato (in inglese ‘selvedge’), ossia che mantiene l’originale bordo non tagliato quando esce dal telaio. I ‘puristi’ amano i jeans selvedge perché originali e ‘imperfetti’, quindi unici. Ma oggi questa tipologia trova sempre più aficionados tra tutti i consumatori, più edotti e cultori del denim. E vive un forte revival grazie anche a marchi nati come piccoli atelier in tutte le parti del globo. Ad esempio, la giovane label norvegese Livid Jeans crea modelli artigianali, tutti rigorosamente ‘handcrafted in Trondheim’, utilizzando solo denim giapponese cimosato. I jeans della californiana Rising Sun, 100% made in Usa, sono tessuti a mano dagli artigiani del brand su telai vintage, e proprio per l’alta qualità e la componente handmade possono arrivare a costare 500 dollari al paio. Infine Raleigh, un altro marchio americano di jeans in limited edition, è per la filosofia della nicchia e del “fewer and better”. “I jeans sono sempre stati considerati quasi un prodotto commodity – ha spiegato il fondatore Victor Lytvinenko -, quindi un approccio che punta sull’alta qualità potrebbe sembrare assurdo. Eppure è proprio quello che manca nel mercato. Sia che si proponga un prodotto ecosostenibile, più sperimentale o più artigianale, il futuro del denim è nella nicchia”.
di Valeria Garavaglia