Materiali grezzi, finiture aspre e lavorazioni irregolari. Sono i simboli dall’estetica ‘crudista’ che alle rassicuranti certezze dell’omologazione contrappone il possibilismo vitalistico dell’imperfezione. Tra virtuosismi artigianali, evocazioni primitiviste e scabri rimandi all’eco-sostenibilità.
C’è chi ci legge il riflesso della crisi finanziaria che continua a tormentare l’Occidente, mettendo in discussione le tradizionali declinazioni del lusso. C’è chi, invece, ci vede la risposta estrema al conformismo del gusto che aborre il vitalismo creativo dell’imperfezione. Forse c’è un po’ di tutto questo nello stile raw (in inglese, “grezzo”, “ruvido”, “non lavorato”) che, nelle attuali preferenze delle élite più iconoclaste, ha rimpiazzato lo shabby chic di cui, certo, è parente prossimo ma da cui si differenzia per il suo côté high-tech e i suoi rimandi al primitivismo. Grazie a un convincente mix di miseria e nobiltà, citazionismo colto – l’Arte Povera in primis – e rigore trappista, questa corrente estetica importata dagli Stati Uniti e nata da una costola del ‘crudismo’ alimentare (che incoraggia il consumo di cibi cotti a non più di 40°), sta guadagnando sempre più diffusi consensi. Un successo conquistato con il concorso di metalli ossidati, legni screziati, colori organici, basi corrose e finiture imprecise che cristallizzano la poetica del tempo che passa e restituiscono nuovo valore alla manualità e al saper fare artigianale. Tutti input che Miuccia Prada, confermando il suo ruolo di accorto sismografo dello zeitgeist, ha trasposto nella sua collezione femminile per il prossimo autunno/inverno. Un metaforico ‘j’accuse’ contro la tirannia di un sistema, quello della moda ma forse non solo, che, a detta sua, oggi stronca sul nascere gli eccessi, le esagerazioni e le romantiche velleità di chi vorrebbe non rassegnarsi all’appiattimento del pensiero, delle parole e del guardaroba. Per dare forza e sostanza a questo messaggio, la stilista ha composto uno stordente pastiche a base di tweed finti ispidi, pellicce maltrattate, lunghezze asimmetriche, ampiezze New Look e incompiuti ricami di jais. Proposte affidate in passerella a hitchockhiane eroine con i capelli bagnati e le suole carrarmato che la sapiente regia dello show milanese dello scorso febbraio ha saputo integrare nell’atmosfera ‘industriale’ della prescelta location di via Fogazzaro. Uno spazio ben sintonizzato con la filosofia raw che elogia gli ambienti scarni e nobilitati da sobrie combinazioni cromatiche e da materiali di sapore arcaico. Come i mattoni dall’aria polverosa usati dallo studio Kuehn Malvezzi per dare vita, in simbolica unione con dei libri, alle panche, ai banconi e alle librerie del progetto Brickolage.
O come i ruvidi blocchi di pino fossilizzato e vetrificato con la resina epossidica dell’americano Jack Craig, specializzato nella creazione di mobili ‘brutalisti’. E ancora, come i tubi di rame, le piastrelle di ceramica e le colate di calcestruzzo impiegati ‘a crudo’ dall’architetto svedese Richard Lindvall per trasformare un parcheggio di Stoccolma in un ristorante polacco di tendenza, il Nazdrowje, inaugurato qualche mese fa. Ma c’è un altro rilevante aspetto del design raw che ha ispirato il nome e l’offerta merceologica dei due cabinets de curiosités aperti a Milano dagli architetti Paolo Badesco e Costantino Affuso: l’uso di materiali recuperati e assemblati con grande perizia manuale per costruire pezzi unici dall’aria modernamente ‘vissuta’. Un credo estetico che è alla base della ricerca condotta dall’art-designer Nacho Carbonell e, più ancora, dall’olandese Piet Hein Eek. Il quale, nella sua factory alla periferia di Eindhoven, realizza richiestissimi mobili con tubolari di ferro e policromi ritagli di legni dai quali sembra aver preso spunto Junya Watanabe per i certosini patchwork visti nella sua ultima collezione maschile. L’ispirazione raw ha conquistato anche Gareth Pugh e lo stilista inglese Christopher Raeburn, profeta dell’’upcycling’ e dell’’ethically-aware’, che utilizza da sempre tessuti rigorosamente riciclati e ruvidi solo in apparenza.