Mentre il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, dopo giorni di trattative, concordava un documento di condanna della repressione in Myanmar forte nei toni ma non vincolante nei fatti, ieri è giunto un segnale di isolamento verso la giunta militare dal mondo delle imprese e in particolare dal settore dei gioielli.
Dopo Cartier, che mercoledì aveva annunciato che non avrebbe più acquistato gemme provenienti dall'ex Birmania, ieri anche l'italiana Bulgari ha comunicato che d'ora in avanti farà in modo di non utilizzare pietre preziose estratte in Myanmar per i propri gioielli. «Benché la nostra azienda, servendosi solo sui mercati internazionali, non abbia mai comprato gemme direttamente dall'ex Birmania, abbiamo espressamente richiesto ai nostri fornitori di fornirci delle garanzie sulla provenienza delle pietre che acquistiamo», ha spiegato la casa romana in un comunicato.
Per anni al centro di polemiche perché accusato di avere indirettamente finanziato con l'acquisto di diamanti alcune delle più sanguinose guerre africane, il settore dei gioielli si è schierato per la prima volta contro l'ex Birmania nel 2003 quando l'americana Tiffany cessò di impiegare pietre provenienti da Myanmar. Le prese di posizione degli ultimi due giorni non hanno però scoraggiato la giunta che ha annunciato per novembre una nuova asta di gemme, la quinta di quest'anno, che potrebbe portare nelle casse del governo circa 100 milioni di dollari.
A muoversi in controtendenza rispetto al clima di boicottaggio economico è stata ancora una volta l'India, che ieri ha annunciato che nel giro di un mese dovrebbe definire un accordo per investire 103 milioni di dollari nella costruzione di un porto a Sittwe, in Myanmar.
Estratto da Il Sole 24 Ore del 12/10/07 a cura di Pambianconews