Jil Sander Ag, gruppo della moda quotato alla Borsa di Francoforte dal 1980, è un caso da studiare soprattutto per due motivi. Primo, perché è un marchio sopravvissuto alla stilista-fondatrice: Jil Sander, nata ad Amburgo nel 1943, fondò l'azienda nel 1978 e per molti anni venne chiamata «l'Armani della Germania».
Negli anni Ottanta e Novanta seppe imporre sulla scena della moda internazionale una versione di minimalismo nordica, ma con un'anima. Nel 2004 però la Sander ha lasciato definitivamente la maison, che sta conoscendo una seconda giovinezza,come dimostrano i dati della semestrale diffusa ieri. Dopo sei esercizi chiusi in forte perdita, l'ebitda ha raggiunto il break even (mentre nello stesso periodo dell'anno precedente era stato negativo per 300mila euro). I ricavi hanno raggiunto i 60,7 milioni di euro, con una forte crescita degli accessori: le vendite di scarpe sono aumentate del 25% e quelle di borse del 35%.
Risanamento finanziario a parte, c'è un secondo motivo che rende la storia di Jil Sander interessante: le vicende del marchio sono un ottimo esempio di quello “shopping spree”, fame da acquisizioni potremmo dire, che colpì i grandi gruppi della moda e del lusso alla fine degli anni 90. La casa tedesca fu venduta nel 1999 a Prada, che stava cercando di costruire un polo del lusso in grado di competere con i colossi francesi, e che più o meno nello stesso periodo acquisì marchi come Helmut Lang, Car Shoe, Azzedine Alaia, Church's (alcuni poi rivenduti)
All'inizio Jil Sander restò come direttore creativo, ma la convivenza tra l'Armani teutonica e il “toscanaccio” Patrizio Bertelli si rivelò burrascosa: la stilista se ne andò dopo sei mesi, per poi tornare nel 2003 e lasciare di nuovo l'anno successivo. Ci volle più di un anno per trovare un designer in grado di raccogliere l'eredità stilistica della fondatrice: il 1� luglio 22007, Raf Simons venne scelto come direttore creativo. Ma i cambiamenti continuarono: nel febbraio 2006 Prada vendette Jil Sander al fondo di private equity Change Capital Partner, che si dichiarò «entusiasta dell'acquisizione di un brand così globale» e innescò alcuni immediati cambiamenti rispetto alla strategia iniziale di Patrizio Bertelli.
«Forse all'inizio del 2000, afferma GianGiacomo Ferraris, AD di Jil Sander, qualcuno pensava che il nostro marchio potesse dar vita a seconde linee e altre brand extension considerate redditizie, almeno nel breve periodo. Ma grazie a Raf Simons Jil Sander è tornato definitivamente a essere percepito come prét-à-porter di fascia alta: abbiamo riportato in Italia la produzione di tutti gli accessori e continueremo a concentrarci sulla qualità, potenziando le collezioni di occhiali e operando una relocation dei negozi: nell'era Prada si era pensato di aprire negozi enormi, che non si addicono al Dna di Jil Sander. Anche su questo abbiamo cambiato strategia e i risultati si vedono. Puntiamo sulla qualità, non la quantità».
Estratto da Il Sole 24 Ore del 15/09/07 a cura di Pambianconews