«Il museo del design? C'è già. I cantieri sono attivi, a fine luglio cominceremo a entrare con l'allestimento e a novembre ci sarà l'inaugurazione». A Davide Rampello, presidente della Triennale di Milano, non sono piaciute le parole di Marie-Laure Jousset, direttore del dipartimento Design del Centre Pompidou («Probabilmente un museo del design non lo farete mai» sul Corriere del 31 maggio), proprio alcuni giorni prima della mostra che li vede entrambi protagonisti. «Fabrica: Les yeux ouverts», la rassegna ideata dal Beaubourg sul laboratorio di ricerca e comunicazione di Benetton, debutta domani nello storico Palazzo dell'Arte di Giovanni Muzio. Con alcuni progetti in più rispetto a Parigi, inclusa la partecipazione di Al Gore, l'ex candidato alla Casa Bianca oggi convinto ambientalista (il 14 giugno).
Allora dopo 30 anni l'Italia avrà il tanto sospirato museo del Design?
Sì, e sarà inedito nell'interpretazione del design. E' un museo italiano che nasce a Milano nel territorio che per eccellenza esprime non solo gli architetti, ma anche le aziende. Proprio venerdì scorso abbiamo ricevuto la visita del vicepresidente del Consiglio Francesco Rutelli che ci ha garantito ulteriori risorse.
La storia del design, patrimonio unico del Paese. Ci sarà anche spazio per i giovani?
Il museo rappresenta per noi una duplice occasione: da un lato incrementare il lavoro scientifico sulla memoria, dall'altro creare un osservatorio sui giovani designer italiani. E in questo senso il lavoro è già iniziato con la mostra appena conclusa “The new italian design”.
Progetti a livello internazionale?
La Triennale a fine 2006, ha aperto una sede permanente a Tokyo con la mostra “Maestri” ma gesto ancora più importante si è sdoppiata con una sede alla Bovisa per vivificare un quartiere periferico. E questo rientra nell'interpretazione di uno dei grandi temi internazionali: le periferie.
Perché invitare a Milano Fabrica?
All'inaugurazione della mostra a Parigi Luciano Benetton aveva detto “Qui ci hanno invitato, in Italia no”. Così abbiamo accettato la provocazione. Siamo andati a vedere la mostra e l'abbiamo voluta qui. Perché quello che conta non è tanto la paternità ma la circolazione delle idee. E non è la prima volta che collaboriamo con il Centre Pompidou. Abbiamo portato a Milano Jean Nouvel e “Euro Visions”.
Estratto da Corriere della Sera del 4/06/07 a cura di Pambianconews