Delocalizzare o radicarsi all'estero? Di fronte ai rischi ma anche alle opportunità che la globalizzazione e l'allargamento dell'Unione europea offrono alle nostre imprese, oggi è meglio puntare tutto sulla riduzione dei costi o alzare l'asticella tentando la conquista di nuovi mercati? Le statistiche non ci dicono ancora tutto, ma i segnali che indicano nelle strategie competitive delle imprese manifatturiere italiane una metamorfosi nei processi di internazionalizzazione attiva si rincorrono.
La riduzione dei costi, che ha ispirato e ispira i processi di delocalizzazione produttiva di prima e seconda generazione e che trova nel modello Nord-Est/Romania il suo punto di riferimento più compiuto (con 2.578 aziende venete attive su un totale di 17594 imprese italiane, di cui 656 attive, che dagli anni Novanta hanno delocalizzato impianti in tutta la Romania e soprattutto a Timisoara, anche se non per tutte è stato un successo), occupa sempre un ruolo fondamentale nelle strategie delle nostre imprese. Ma la competitività sui costi non è tutto e il ripensamento è in corso, come racconta Alberto Zanatta, il vicepresidente per l'internazionalizzazione dell'Unione degli industriali di Treviso.
Si ferma la corsa alle delocalizzazioni e cresce l'attenzione alla qualità, all'innovazione, agli elementi immateriali della produzione che fanno la differenza e sale l'interesse per le opportunità che mercati una volta impensabili possono offrire alla nostra imprenditorialità. I modelli di internazionalizzazione attiva oggi prevalenti nelle nostre imprese sono almeno cinque. La delocalizzazione, che ha generato massicci flussi di riallocazione produttiva soprattutto sui mercati dell'Europa dell'Est, non è finita ma sta cambiando. Da una parte c'è una coda di imprese che seguono la via della delocalizzazione tradizionale nelle aree a più basso costo del lavoro e più facilmente raggiungibili come i Paesi dell'Europa del Sud-est, l'area balcanica e l'altra sponda dell'Adriatico. D'altro lato c'è una delocalizzazione di seconda generazione che spinge le imprese italiane a ricercare aree che presentano i vantaggi di costo un tempo assicurati dall'Est Europa e che oggi riguardano principalmente la Moldavia, l'Ucraina e la Russia, i Paesi mediterranei del Sud (dalla Turchia all'Egitto e dalla Tunisia al Marocco) e nuovi Paesi del continente asiatico che vanno dalla Cina all'India ma anche al Vietnam, alla Thailandia, a Singapore.
Accanto a questi due modelli, ancora basati sulla delocalizzazione produttiva, viene avanti una forma originale di outsourcing estero a geometria variabile che è ben rappresentato dal caso Geox, la cui testa pensante è a Montebelluna, ma i cui impianti produttivi sono in gran parte all'estero e non sono di sua proprietà.
Estratto da Il Sole 24 Ore del 8/02/07 a cura di Pambianconews