L'industria italiana è nel mezzo di un processo di “rivalutazione” dei prodotti del Made in Italy, trainato dalle produzioni tipiche tra cui il tessile-abbigliamento e la pelleteria. La concorrenza dei prodotti asiatici ha innescato un processo di upgrading della produzione italiana, che si sta spostando su livelli qualitativi più elevati e su target più selezionati. Competere con cinesi e vietnamiti sui manufatti a basso valore aggiunto è improponibile e senza futuro.
Secondo i dati Istat sul commercio estero, nei primi nove mesi del 2006 l'export è stato trainato dalla crescita dei valori medi unitari dei singoli beni, oltre che, come non succedeva da qualche anno, dalla crescita delle quantità esportate (+1,1%). Il valore medio unitario ha accelerato del 6,7%, addirittura più dell'anno precedente: +6,3. Senza dimenticare che il mercato extra Ue-25 (più piccolo di quello domestico) assorbe molto più facilmente i ritocchi dei prezzi di quello Ue-25: nei primi nove mesi del 2006, consumatori e imprese hanno accettato di pagare quasi il 10% in più dell'anno prima per il Made in Italy.
Ma disaggregando i dati settoriali emerge, secondo le elaborazioni del Centro studi Confindustria, che la crescita più sostenuta dei valori medi unitari l'hanno messa a segno i settori “classici” in cui sono specializzati gli esportatori italiani tra cui il tessile-abbigliamento (+6%) e i prodotti in cuoio (5,5%). Tuttavia il riposizionamento verso fasce qualitative più elevate non è stato sufficiente a contrastare l'emorragia dell'export, in quantità, del tessile-abbigliamento e del cuoio, rispettivamente -3,7 e -1,5%.
Intanto, gli ultimi dati Istat sull'export italiano nei primi 11 mesi del 2006 indicano una crescita di circa il 10% a 298 miliardi, che si confronta con i 602 miliardi della Francia e i 1.197 miliardi della Germania, primo esportatore mondiale.
Estratto da Il Sole 24 Ore del 5/02/07 a cura di Pambianconews