Mario Boselli, presidente della Camera della Moda, ha intervistato Emma Bonino, ministro del commercio internazionale, sul futuro del settore moda, sulla crisi del mercato e sulla competizione con nazioni temute come Cina e India.
La delocalizzazione dovrebbe avvenire mantenendo i centri decisionali nel nostro Paese. Il che potrebbe significare più impiegati e meno operai, soluzione drastica. Cosa ne pensa?
Bisogna distinguere fra delocalizzazione e internazionalizzazione. La prima è ciò che nessuno si augura: un'impresa italiana che chiude le proprie fabbriche per aprirle all'estero sbaglia. Non solo in termini di occupazione, ma anche di innovazione. Trasferire la produzione nei Paesi dell'Est o nel bacino del Mediterraneo solo per ridurre i costi della mano d'opera, significa alterare la qualità del prodotto che, alla lunga, non è più italiano ma del paese che l'ha fabbricato. Internazionalizzare significa, invece, crescere sui mercati esteri mantenendo cuore, cervello e gambe della propria azienda in Italia. Questo è il valore aggiunto che gli imprenditori devono decidersi a realizzare.
Parlando di Cina e India, il coro unanime dice che questi paesi faranno concorrenza spietata al nostro ma, allo stesso tempo, offriranno anche grandi opportunità. Lo dimostrano successi e glorie dei nostri maggiori stilisti. Si tratta però di una decina di aziende, mentre altre migliaia rischiano la sopravvivenza. Si ha la percezione di questa realtà? E come fare per riequilibrare la situazione?
E' un problema non facile da risolvere e non vale solo per Cina e India. Le aziende medie italiane, che sono diventate multinazionali, sono una quarantina. Vi è poi una miriade di piccole realtà, il 93% delle nostre aziende, magari eccellenti che però non possono competere con i colossi indiani e cinesi: occorre aiutarle a superare questo handicap perché la stragrande maggioranza, se sopravvive, è destinata comunque a rimanere di piccole dimensioni.
La Camera nazionale della moda concentra i suoi sforzi all'estero, adottando strategie diverse a seconda dei paesi in cui opera. In Usa, Cee e Giappone, ci vorrebbe una forte campagna promozionale per mantenere le posizioni già acquisite. Negli altri paesi, invece, abbiamo scelto di investire per sostenere l'export in quelle nazioni in cui l'aumento del Pii supera il 3%. Condivide questa scelta?
E' esattamente quello che intendo fare con I'Ice. Nel passato sono state organizzate miriadi di fiere e manifestazioni che hanno portato ben poco alle nostre aziende. Invece di buttare soldi a pioggia, è necessario focalizzare ogni anno l'attenzione su due o tre grandi paesi e su alcuni settori particolari. Per il prossimo anno, per esempio, penso all'India.
La Camera nazionale della moda chiede che sia approvata, in tempi brevi, la normativa europea per il “made in Italy” nella versione più radicale, ovvero con l'indicazione d'origine di tutto ciò che è prodotto nella Cee. Consideriamo tuttavia un accettabile compromesso ottenere il marchio “made in Italy” obbligatorio per almeno tutto ciò che proviene dai paesi extra Cee. Quali saranno i tempi di una reale applicazione?
Riconoscere la provenienza di una merce è un vantaggio per il consumatore, ma anche e soprattutto per le aziende italiane e europee, la cui produzione viene così valorizzata. Ma ci sono ancora delle difficoltà. Ci sono dei paesi, come la fascia del nord Europa, che non producono quasi più nulla e si limitano a importare. A questi paesi non interessa da dove provengano abiti e scarpe e considerano le nostre richieste anacronistiche. Ritengo invece che mantenere vivo un tessuto produttivo sia un vantaggio per tutti.
Estratto da Panorama – First del 29/09/06 a cura di Pambianconews