Nell'industria della moda e del lusso gli italiani sono bravi, ma non sono efficienti. Almeno non abbastanza per le esigenze del mercato. Ci vuole quindi un cambiamento strategico, una trasformazione globale del ciclo produttivo. Patrizio Bertelli, presidente e amministratore delegato di Prada, appena tornato da New York, va subito al cuore del problema: «con tante parole spese sul made in Italy non è mai stata affrontata seriamente la questione del miglioramento dell'efficienza produttiva. Quindi della razionalizzazione dei costi e dell'aumento della competitività».
Bertelli, che cosa non va nel sistema moda italiano?
La struttura e i processi industriali sono fermi ai modelli degli anni 80, quando sui mercati non esistevano ancora Paesi come la Cina, la Russia, il Medio Oriente. O come l'India, il più pronto per essere un vero concorrente del sistema occidentale. Dalla fine degli anni 90 il mondo è cambiato e anche il nostro business si deve evolvere.
Quale può essere un punto da cui partire, un primo ostacolo da eliminare?
Intanto la chiusura di tre-quattro settimane ad agosto. Le faccio un esempio: il tessuto è la nostra materia prima, se le aziende tessili si fermano questo va a incidere sul processo produttivo che dovrebbe essere continuo. Per ovviare al problema alcune aziende comprano tessuti all'estero, per esempio in Giappone, che non chiude mai. Il risultato è che i fornitori giapponesi consegnano in settembre, i nostri in ottobre. Ma le piccole aziende non possono andare a rifornirsi all'estero. La tempistica delle sfilate è un altro punto cruciale, che non tiene conto del fatto che le aziende devono anche dare un servizio, rispettare i tempi di consegna. Tra gennaio e febbraio vengono presentate le collezioni uomo e donna, distanziate di 4-5 settimane. Poi si riparte con l'uomo nella terza settimana di giugno e per la donna si va afine settembre. Perché questo divario? Se tutto si concludesse entro luglio, le aziende avrebbero più tempo per produrre, e per consegnare la merce a dicembre, come chiedono i clienti internazionali.
Parlando di made in Italy è inevitabile parlare di delocalizzazione: un rischio o un vantaggio?
Un vantaggio, se facciamo buon uso dei Paesi del bacino del Mediterraneo. Anche Church's da anni utilizza semilavorati fatti in Ungheria. È la cultura del lavoro che è cambiata. Il vero made in Italy è il controllo del know how e il vero rischio non sono i semilavorati fatti all'estero, ma l'esportazione del processo produttivo.
Estratto da Il Sole 24 Ore del 27/07/06 a cura di Pambianconews