Il 13 maggio la Guardia di Finanza ha bloccato su una delle piste di Malpensa un aereo già in fase di rullaggio. Nel mirino dei finanzieri Gianluigi Facchini (nella foto), imprenditore d'assalto con in tasca un biglietto per Londra e NewYork, con destinazione finale Hong Kong, là dove le possibilità di estradizione tendono a zero. Un evento che rappresenta una linea di demarcazione per la moda italiana. Il caso Facchini-Fin.part è un simbolo soprattutto perché, con l'arresto sulla pista di Malpensa si è chiusa l'ultima scena del dramma vissuto dal lusso italiano a cavallo del millennio. In qualche modo, si è regolato l'ultimo pesante conto rimasto aperto col passato. Quasi a presentarsi con la fedina pulita in quella che per il settore «è una nuova e diversa strada di crescita, commenta Carlo Pambianco, dell'omonima casa di consulenza, fatta di negozi forse meno pieni di luci e clienti, ma che poggia su uno sviluppo più qualitativo e consapevole».
La storia di Fin.part viene così a rappresentare l'immagine più cruda del travaglio vissuto da alcuni marchi che hanno fatto la storia del made in Italy. Un declino cominciato a metà 2001, cui l'11 settembre ha solo dato la botta finale. Il gruppo fondato da Facchini aveva raccolto sotto il proprio ombrello nomi storici come Nino Cerruti e Frette, ma anche brand più giovani, protagonisti del boom dello sportswear di fine Anni 90, come Moncler e Marina Yachting. Fin.part (contrazione di Finanziaria di Partecipazioni)venne fondata nei primi Anni 90 da Facchini e Giancarlo Arnaboldi, personaggio nato della finanza milanese. L'idea era di aggregare marchi del lusso e gestirli in maniera accentrata, sfruttandosinergie e leve di marketing comuni, al punto che, si racconta, Facchini arrivò a immaginare una propria agenzia di comunicazione. Il primo colpo fu l'acquisto di Frette. Ma la grande scommessa arrivò con Cerruti. Facchini comprò prima il 50% della società. Quindi, dopol'uscita di scena di Arnaboldi, le banche lo convinsero a rilevare anche il resto. «Siamo nel periodo, ricorda Pambianco, in cui le aziende di moda si scatenano in uno shopping sfrenato di marchi e negozi».
Diverse società, tra cui Fin.part, potevano contare sui denari affluiti dopo il collocamento in Borsa. Insomma, «era una sorta di età dell'oro, riprende Pambianco fatta di investimenti senza freni in immagine, negozi, nuovi marchi». Tutte spese che spesso non trovavano riscontro con le reali capacità finanziarie dei gruppi. Una tentazione che non investì solo gruppi d'assalto come Fin.part. In quel periodo, Richemont accettò di comprare ben tre brand di orologi per oltre un miliardo di euro. E in Italia, Prada, per esempio, mise nel suo carniere Church, Jil Sander, Genny ed Helmut Lang. Mentre il patron di It Holding, Tonino Perna, si lanciò in diverse avventure (Diner's e Art'è), prima di rilevare nel dicembre 2000 un grande (e indebitato) brand come Gianfranco Ferré. Ci provò anche i i gruppo Gft, con marchi del calibro di Valentino e Facis. Ed ecco che, invece di nuove entrate, il millennio ha portato l'11 settembre, un paio di epidemie mondiali e la guerra in Iraq. «Una serie di eventi, riprende Pambianco, che accelerano la crisi e bucano la bolla del lusso».
Estratto da Monthly del 19/07/06 a cura di Pambianconews