Le aziende dei cinesi di Prato hanno già contribuito a fare del loro distretto un caso di controtendenza in questi anni di timori del declino. Fra il '96 e il 2003, prima ancora della crisi legata alla fine delle restrizioni all'import dalla Cina, quest'area aveva subito chiusure di circa un terzo delle imprese di tessile e maglieria: in gran parte lanifici e filature tradizionali. Negli stessi anni intanto raddoppiava il numero di partite Iva nelle confezioni e nell'abbigliamento, e la spiegazione è semplice: mentre molte aziende familiari toscane soccombevano alla concorrenza asiatica, quelle dei cinesi di Prato sono aumentate da meno di 400 dieci anni fa a quasi duemila oggi.
E' quanto emerge dalla ricerca effettuata da Daniela Toccafondi, economista dell'Università di Firenze e ricercatrice del centro studi Pratofutura. "Ma niente di tutto questo, avverte, significa che la concorrenza cinese stia battendo il vecchio distretto di Prato in casa propria". Toccafondi parla piuttosto di cinesi che compiono "scelte complementari, in modo da estendere la filiera a valle". Molte delle quasi ventimila imprese tessili «italiane» di Prato producono solo filati, non abiti, ma lo fanno in due direzioni: la parte sostenuta da ricerca e innovazione alimenta il Made in Italy di alto livello, deciso a competere sulla qualità. Il resto passa invece dal «cancello sul retro», quello della moda a basso costo confezionata sul posto da cinesi spesso in condizioni lontane dai livelli minimi di legalità fiscale, ambientale o sanitaria.
Poco cambia se da anni Unione industriale, Confartigianato o Cna locali denunciano la concorrenza sleale: anche quest'integrazione fra i due livelli fa la sua parte per tenere a galla il vecchio distretto. Carlo Longo, presidente dell'Unione industriale, preferisce non parlare delle imprese cinesi anche perché "con la sua associazione hanno poco a che fare: solo una ne fa parte". Ma Paolo Biancalani, ex presidente dei commercialisti cittadini, per questo fenomeno ha un termine: "Delocalizzazione in loco", ricerca dei bassi costi non a Canton o Timisoara ma lungo la via pistoiese. Nelle aziende asiatiche della porta accanto, nei loro costi di produzione e nella loro domanda di beni. «Il cinese porta vantaggi a Prato quando si comporta da cinese, sostiene Biancalani, non da italiano». Ma se è così, per Daniela Toccafondi il vero test del futuro passa sempre dal cancello grande: solo quando passeranno da lì, i cinesi potranno aprire al distretto il mercato della loro d'origine.
Estratto da Corriere della Sera del 7/07/06 a cura di Pambianconews