«L'ultima campagna vendite è andata molto bene, così come non succedeva da anni. E' un segnale che c'è un trend di ripresa nel paese. Forse si comincia a vedere la fine del tunnel». Carlo Rivetti a capo di Sportswear Company, azienda di abbigliamento casual di lusso, è moderatamente ottimista. «Noto dei segnali di fermento nel settore. Ho l'impressione che il ciclo si sia invertito». Il commento lo fa da imprenditore, ma anche con un abito più istituzionale. Siede nel consiglio di amministrazione di Pitti Immagine, è dentro Sistema Moda Italia e nella Camera Nazionale della Moda Italiana con delega alla formazione insieme alle università della Bocconi e del Politecnico. E´ nel tavolo di moda e design che vede collaborare la Camera della Moda e l´Adi, l´associazione del design italiano, di cui è socio fondatore. Fa parte di Altagamma, che riunisce le aziende italiane nell´alto di gamma. Non ultimo, insegna progettazione degli abiti al Politecnico di Milano e marketing della moda al L. U. N. A. di Bologna. Parliamo con lui del sistema moda italiano. E lui corregge: «Non parlerei a questo punto di sistema moda, ma di sistema Italia, perché è così che bisognerà muoversi nei prossimi anni. Tutti insieme e in modo trasversale, proponendo più che dei prodotti, uno stile di vita che metta insieme moda, cibo, turismo, design».
Racconta che gli imprenditori, nonostante la crisi congiunturale degli ultimi anni, si sono mossi bene.
Insomma bene l´iniziativa privata, male quella del Paese…
«Sono moderatamente ottimista per il futuro. Tra l´altro questo è l´ultimo periodo in cui possiamo rimanere agganciati all´Europa. Adesso non può più venirci in soccorso il sistema della svalutazione che ci ha salvato spesso la pelle in passato. Siamo in un sistema più vasto e non possiamo ragionare con le solite logiche italiane». «Dovremo difendere il Made in Italy, intendendolo come uno stile di vita, un concetto multiculturale e non settoriale. Guardiamo al problema Cina. Dovremmo rispondere esportando in quel paese intere strade italiane, con bar, enoteche, pasticcerie e negozi che vendono mobili. E in questo senso l´associazione in cui mi ritrovo di più è Altagamma, che rappresenta tutti i settori dell´eccellenza italiana, dal caffè alla moda, dal cioccolato al design».
La sua azienda dove produce?
«L'anno scorso producevamo il 90% in Italia, quest´anno il 70%. Sa perché? perché non troviamo manodopera. Le faccio un esempio paradossale della situazione: la comunità dei cinesi di Prato ormai delocalizza in Cina».
Ci sono, però, molti imprenditori del lusso, che sono ancora dei convinti sostenitori del “fatto in Italia”…
«In proposito chiederei a Diego Della Valle, che è uno di loro, come può sostenere che lui continuerà a produrre qui in Italia. La mia non vuole essere una domanda polemica. Ma gli chiedo realmente: come fa? Manca la manodopera. Non c'è ricambio generazionale. Basta guardare quello che succede nelle scuole professionali. Ce n'è una piccola con specializzazione tessile a Padova, che ha formato tutti i tecnici che ho in azienda. Negli ultimi anni si è svuotata perché gli hanno aperto di fianco una scuola di aeronautica. C´è un'altra scuola tessile a Crevalcore, in provincia di Modena, vicino alla nostra azienda, che si è desertificata negli ultimi anni. L´anno scorso con la preside abbiamo coinvolto un po´ di scuole medie del circondario e un po´ di aziende per spiegare ai ragazzi e alle famiglie che nel mondo dell´abbigliamento ci sono delle storie di successo e che si possono occupare delle posizioni pagate bene e importanti per i prossimi anni. Ma non si riesce ad avere grande seguito. Alla fine è una questione sociale ed economica. Stiamo diventando una società di colletti bianchi. I cinesi, invece, hanno una manodopera fantastica. E´ un popolo che ha inclinazione per la manualità.. mancano però delle altre figure, per esempio quelle legate alla progettazione».
Estratto da Affari&Finanza del 29/05/05 a cura di Pambianconews