«Abbiamo deciso di fare un nuovo annuncio sul Financial Times Europe per denunciare l'ennesimo rinvio della Commissione sul “Made in” e sollecitare leggi nazionali in attesa che l'Europa istituisca il marchio di origine obbligatorio per i prodotti extra-Ue, perché è il giornale che legge il commissario Mandelson. E perché grazie a un´analoga iniziativa, abbiamo ottenuto che fossero introdotte misure antidumping». E´ combattivo come sempre il presidente dell´Anci, Rossano Soldini, che da tempo difende gli interessi, se non la sopravvivenza stessa, dei calzaturieri piccoli e medi italiani.
E che cosa ha letto, se lo ha letto, Mandelson nel primo dei due annunci usciti il 4 maggio?
«Che Bruxelles e una parte dell´Europa, quella del Nord, non difendono le industrie produttrici, i consumatori, i lavoratori che stanno perdendo reddito e vedono svanire un patrimonio costruito con tanti sacrifici. Sono due anni che la commissione europea, con assurde motivazioni, rimanda l'adozione del marchio di origine obbligatorio per alcune categorie di prodotti importate nella Ue».
Tra cui proprio le calzature. Argomento caldo per voi….
«Già. E ci siamo mossi perché l'ultima riunione a Bruxelles, il 27 aprile scorso, quella che doveva essere finalmente definitiva, si è conclusa con un niente di fatto e con l´ennesimo rinvio. Mentre qui il tempo stringe. Il “Made in” rappresenta un elemento fondamentale nell´obbiettivo della correttezza dei rapporti commerciali. Non è una misura protezionistica, ma una scelta di trasparenza a favore dei consumatori».
Però c´è stato chi, come Bertelli, ha detto che non conta tanto dove vengono prodotte le collezioni del fashion quanto piuttosto il brand. E che un capo firmato Prada, la gente se lo compra lo stesso.
«Questo è vero. Per le griffe importanti che giocano la carta del valore aggiunto moda, che un capo sia made in china o made in Italy non fa differenza. Resta che, per onestà nei confronti del consumatore, anche se fashion victim, le collezioni prodotte fuori Italia, dovrebbero avere prezzi inferiori».
Torniamo ai calzaturieri non griffati. Che futuro vede per loro?
«Molto buio. Se non si prendono provvedimenti tra cinque sei anni non si parlerà più di scarpe made in Italy. E questo perché non abbiamo la forza contrattuale necessaria. Siamo considerati poco strategici. Il nostro settore, sovente criticato per le piccole dimensioni, rappresenta invece una delle poche positive eccezioni di una bilancia commerciale nazionale che nel 2005 ha chiuso con un passivo di oltre 10 miliardi di euro».
E voi?
«Nello stesso periodo, e cioè nei primi 11 mesi del 2005, la bilancia commerciale del nostro settore ha chiuso con un attivo di 3,3 miliardi di euro. Resta che l´anno prima il risultato superava i 4,5 miliardi di euro».
Estratto da Affari&Finanza del 15/05/06 a cura di Pambianconews