C'è un numero che il presidente cinese Hu Jintao non vorrebbe mai vedere nelle statistiche che gli consegnano i tecnici del consiglio di stato. Questo numero è il 10. È presagio di sventure politiche, di indebite pressioni sullo yuan, di ritorsioni commerciali a livello globale, di ribellione della periferia ai piani quinquennali del Politburo. Insomma è un numero che porta male a un gruppo dirigente che, per sopravvivere, pretende, da una parte, stabilità politica e, dall'altra, sostenibilità economica. Ecco perché negli ultimi anni la crescita del prodotto interno lordo della Cina è sempre stata indicata nei dati ufficiali fra il 9,5 e il 9,9%. Guai a superare la fatidica soglia.
Una recente revisione dei conti ha portato a rivalutare per il decennio 1993-2003 di mezzo punto percentuale l'aumento del pil reale a causa di una sottostima, non si sa se voluta o meno, del settore dei servizi. La novità metodologica ha scombussolato la classifica dei paesi più industrializzati: la Cina ha surclassato Gran Bretagna e Francia e si è piazzata al quarto posto, dopo Stati Uniti, Giappone e Germania. Di fronte a questa nuova realtà, subito registrata dagli economisti del Fondo monetario internazionale, il presidente della Repubblica popolare ha annunciato, il 17 aprile scorso, che nei primi tre mesi del 2006 l'espansione dell'economia ha raggiunto il record del 10,2% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.
«Quello a cui puntiamo è l'efficienza e la qualità, non la rapidità della crescita» ha dichiarato Hu Jintao. II presidente non solo teme una reazione negativa da parte di Stati Uniti e Unione Europea, che vedono il Dragone rosso ingoiare, giorno dopo giorno, fabbriche e posti di lavoro. Trema anche di fronte alle prospettive di un surriscaldamento che potrebbe provocare bolle speculative, deflazione dei prezzi e squilibri ambientali e sociali tali da mettere a rischio la sicurezza del paese. «In sintesi questa accelerazione significa, per quanto riguarda la Cina, che i controlli amministrativi a livello centrale non stanno funzionando. Per il resto del mondo le conseguenze non sono meno deleterie perché provocano una continua volatilità nei prezzi delle materie prime» spiega Dan Rosen, professore di economia alla Columbia University di New York e presidente del China strategic advisory. Senza parlare dei continui picchi del petrolio sono in queste settimane ai massimi livelli in tutto il mondo anche i costi dell'acciaio, del rame e dell'alluminio.
I fattori che determinano l'ennesimo boom cinese sono «i forti investimenti» sintetizza James Mccormack, top manager della sede di Hong Kong della Fitch Ratings. «La crescita dei consumi è ragionevole, ma non è certo quella che sta sostenendo l'economia. Le esportazioni sono forti, ma lo sono anche le importazioni, per cui l'effetto netto sul settore del commercio è davvero trascurabile. In realtà la forza che guida il boom è l'investimento: sia quello a opera dei privati sia quello dei governi locali e provinciali. Non dimentichiamoci che la costruzione di grandi opere pubbliche continua a essere uno dei principali motori di sviluppo della Cina».
La Cina ha sì bisogno di crescere, ma solo in aree specifiche, in quelle più rurali. Per evitare un'altra rivoluzione culturale il presidente Hu Jintao si è imposto di riequilibrare i rapporti di forza, facendo aumentare la ricchezza delle aree rurali senza però punire le economie costiere.
Estratto da Panorama del 5/05/06 a cura di Pambianconews