Insieme con quello della meccanica, e degli elettrodomestici in particolare, i settori del tessile-abbigliamento e delle calzature sono l'altro grande polo aggredito da anni dal fenomeno della delocalizzazione. Il modello industriale dell'abbigliamento è sempre stato orientato all'utilizzo di terzi, specie per le lavorazioni a più alto contenuto di manodopera. «Delocalizzare è una necessità per tutti i prodotti che non reggono i costi», spiega Mario Boselli, industriale del settore e presidente della Camera della moda italiana. «Un filo per l'ordito delle tende con determinate caratteristiche, per esempio, è uguale indipendentemente da dove lo si fabbrica: è una commodity. O ci si adatta ai prezzi correnti o si è tagliati fuori».
«I tessuti italiani sono i migliori del mondo, afferma Boselli, e vengono esportati temporaneamente per essere confezionati altrove. Ma oggi questo meccanismo sta cambiando. Nella ricerca esasperata di profitto, ora si tende a fare in Italia solo il prototipo e a spostare tutto il resto all'estero. Anche la realizzazione del tessuto, che dunque risulta meno valido. Il vero rischio è che il tessile italiano perda capacità creativa ed elaborativa, e che così si indebolisca tutta la filiera». Le scelte industriali di Boselli confermano questa convinzione. «Noi abbiamo delocalizzato la produzione di filati in Slovacchia, ma i tessuti li facciamo tutti in Italia».
Anche l'industria delle calzature continua a soffrire. Secondo i dati dell'Anci, l'associazione di categoria, il settore nel 2004 impiegava direttamente circa 100mila persone: «Negli ultimi sette mesi abbiamo perso un altro 5% di occupati» riferisce il direttore, Leonardo Soana. Delocalizzare è, al tempo stesso, una necessità e un fattore di successo.
Estratto da Il Giornale del 28/12/05 a cura di Pambianconews