Le Aziende che fanno grande la moda italiana all'estero hanno chiara la loro meta: recuperare quota dopo il rallentamento degli ultimi tre anni, quando vendite ed esportazioni hanno iniziato a ripiegare e il made in Italy a essere sempre più sostituito dal made in China: la produzione nella moda ha perso, infatti, circa 15 punti percentuali dal 2000 a oggi.
Secondo la banca d'affari Merrill Lynch il mercato del lusso vale 167 miliardi di dollari a livello mondiale, poco meno dei 170 miliardi del 2000, anno d'inizio della crisi economica. Inoltre, un'indagine condotta dal servizio studi e ricerche di Banca Intesa mostra come il contributo che il settore apporta al commercio estero italiano è pari a 20 miliardi di euro (secondo solo alla meccanica con 27 miliardi di euro) e il 45% di quanto prodotto viene poi esportato per lo più nei Paesi dell'area euro. Nel secondo semestre del 2005, inoltre, le esportazioni sono tornate a crescere in media del 4%, con una ripresa che ha riguardato soprattutto pelletteria (+20%), oreficeria (+10%), abbigliamento e occhialeria (+9%).
«Per rinnovare il modello di successo bisogna cambiare non solo il prodotto, ma anche il modo di produrre» spiega a Economy Paolo Zegna, presidente della Federazione imprese tessili e moda italiane (Smi-Ati). «Si tratta di fare sistema per aggiungere a quanto si fa singolarmente quello che in un gruppo si ottiene meglio».
«Queste difficoltà sono solo in parte legate a fattori congiunturali come l'apprezzamento dell'euro o la debolezza dell'economia» spiega Gregorio De Felice, capo economista di Banca Intesa. «Esistono invece elementi strutturali come lo spostamento della produzione mondiale verso Paesi a basso costo del lavoro. Questa pressione competitiva ha aumentato il divario tra i gruppi che hanno trovato le strategie per affrontare il nuovo scenario competitivo e quelle che non ci sono riuscite».
Ma una cosa è certa: la possibilità che si vada a produrre fuori dall'Italia è pari a zero. Robert Polet, presidente e amministratore delegato del gruppo Gucci, è categorico: «Noi non vendiamo borsette o scarpe, noi vendiamo sogni» ha detto in un recente incontro organizzato dalla società di consulenza Pambianco. «Per questo dobbiamo mantenere alto il livello del prodotto e l'unico modo per riuscirci è realizzarlo in Italia». Ma a difendere con le unghie e con i denti la produzione italiana sono anche altri due big del lusso come Versace e Tod's: se il primo è pronto a raccogliere i risultati di un processo di ristrutturazione radicale iniziato ormai un anno fa, il secondo continua a rafforzare la presenza sul mercato italiano con un fatturato che, alla fine del 2004, era di 421 milioni di euro e che nei primi nove mesi del 2005 aveva raggiunto già quota 395,9 milioni
Se si abbandona l'abbigliamento e si entra nel mondo degli accessori o della gioielleria, l'approccio nei confronti del made in Italy cambia. «Per vincere sul mercato è importante avere dei condottieri italiani» spiega Francesco Trapani, amministratore delegato del gruppo Bulgari, che ha chiuso il 2004 con 832 milioni di fatturato, 218 milioni nel solo terzo trimestre 2005, «a cui dare in mano un'azienda che abbia un mix di marchi, un'offerta vasta e innovativa tagliata per diversi target di clientela, con uno spirito imprenditoriale aggressivo, ma sempre attento al controllo della rete di distribuzione e un'organizzazione commerciale di tutto rispetto».
Estratto da Economy del 16/12/05 a cura di Pambianconews