Il settore dei beni di lusso è quello in cui il marchio, insieme al prodotto, rappresenta il principale valore per il business. E il ricorso alle licenze, un brand stretching «ante litteram», è stato un espediente utilizzato spesso dagli stilisti per ampliare la visibilità e la notorietà del logo e generare flussi di business significativi. Dopo gli anni della grande abbuffata, però, si è capito come il ricorso incondizionato alle licenze non fosse una panacea, ma un'arma a doppio taglio per gli effetti di diluizione del capitale del marchio stesso. Anche in un mercato come quello del lusso, dove i marchi sono forti e molto conosciuti in tutto il mondo, il brand stretching è gestito con successo dove c'è cultura di marketing e non solo di prodotto.
In Montblanc, per esempio, si è riusciti a trasformare un'azienda di strumenti di scrittura in un marchio di lusso. Bulgari ha esteso ai profumi e agli accessori il suo business senza sprecare, anzi aumentando la capitalizzazione del proprio marchio. Ormai la maggior parte delle griffe ha imparato a gestire positivamente l'impatto dell'estensione del brand concentrandosi su categorie di prodotti la cui affinità con quelli «core» è indubitabile: profumi, occhiali, orologi.
Più interessanti a mio avviso, però, sono i casi di «brand diversification»: dove cioè si lascia il mercato consueto dei beni di lusso per entrare in quello dei servizi: dagli alberghi alle spa e altro ancora. In tempi recenti, Valentino e Versace, prima delle ultime evoluzioni societarie che hanno riportato al centro l'essenza originaria del marchio, si sono visti distribuire in maniera indiscriminata su piastrelle e lenzuola. Quella strategia ha tolto valore alla loro presenza.
La ricetta che funziona prevede: strategia corretta e gestione attenta di tutta la catena del valore. Non più improvvisazione, insomma, ma competenze manageriali specifiche e in grado di fare la differenza.
Estratto da Economy del 16/12/05 a cura di Pambianconews