Due anni fa, con il bilancio in rosso e una riorganizzazione da fare, promise agli analisti: «Datemi 36 mesi e vi ribalto l'azienda». Non gli credettero troppo. Anche perché, insieme al gruppo Pam, aveva appena comprato Nuance. E in molti, quasi tutti, pensarono che quello fosse solo il primo passo del disimpegno dal core business storico. Che il vero «ribaltone» stesse lì. E che da lì in poi Giuseppe Stefanel avrebbe puntato sui duty free e lasciato perdere abbigliamento, moda, negozi. Con gli annessi mal di testa da concorrenza: Cina da una parte, i vari Zara e H&M dall'altra. Si sbagliava, però, chi scommetteva sull'abbandono. Il turnaround, il ritorno al profitto della società di Ponte di Piave, arriva in anticipo sulla tabella di marcia. E il merito è proprio del tessile.
Segno, dottor Stefanel, che il made in Italy non è per forza condannato?
«Segno, intanto, che abbiamo lavorato sodo. Concentrandoci sul core business, sul prodotto, sui punti vendita, sulla logistica. Poi sì, certo: se vuole questo dimostra anche che, per quanto un mercato possa essere maturo, la strada per fare comunque meglio c'è ancora. Ma è sempre la stessa. Il prodotto».
Anche se costa di più? E il fantasma cinese? Voi siete su fasce di prezzo medio-alte, però la crisi dei consumi colpisce anche lì. E anche lì c'entrano le bancarelle made in China. O comunque Far East.
«Vero. Ma la concorrenza stimola. E reagire si può».
Dunque? La strada è la delocalizzazione?
«Ci sono settori, soprattutto qui nel Nord-Est, in cui sarà inevitabile. La “testa” rimarrà da noi, la produzione no. Noi stessi, la Stefanel, continuiamo a produrre il 75% della nostra maglieria in Italia, in un'azienda modello a due passi da Ponte di Piave. Però per la confezione, pur usando tessuti italiani, il rapporto si ribalta: il grosso della produzione viene dai Paesi dell'Est europeo, qualcos'altro dal Far East. Quindi sì, è evidente che costi e prezzi hanno un ruolo chiave. Ma altrettanto vale per il prodotto. E altrettanto importanti sono i tempi di reazione: capire cosa vuole il consumatore e non perderlo mai di vista».
Lei, a maggio, ha preferito cedere il suo 0,53% di Antonveneta ad Abn a 25 euro, anziché «passare» alla ex Lodi o vendere sul mercato a 26-27 euro. Oggi, della banca di Padova, è consigliere e membro dell'esecutivo. Eletto nella lista olandese. Senza entrare nella bufera giudiziaria: cosa ha giocato su una scelta di campo fatta, peraltro, in tempi non sospetti?
«È vero, ho venduto a meno di quel che avrei potuto ricavare in Borsa. Ma era questione di coerenza. Da una parte c'era un progetto industriale trasparente e in cui credo, perché promette una grande banca con una sede e una vocazione “locale”, ma con una proiezione internazionale. Che è esattamente quello di cui ha bisogno, secondo me, il Nord-Est. Modello in crisi e con i suoi problemi, certo, ma che sta anche mostrando buoni tempi di reazione».
Estratto da Corriere della Sera del 12/08/05 a cura di Pambianconews