Siamo al primo piano del palazzo Trussardi, accanto alla Scala. È l'ora di pranzo e il ristorante comincia a riempirsi di trentenni, giovani uomini e giovani donne, manager, professionisti. Si muovono e si parlano con aria meno febbrile di quella esibita, vent'anni fa, dai trentenni della Milano da bere. Beatrice Trussardi, 33 anni, è una di loro, è presidente e a.d. della società, presidente della Fondazione Trussardi, che a Milano promuove l'arte contemporanea, anche quella più provocatoria, come nel caso degli impiccati dell'artista Maurizio Cattelan. Adesso siamo nel «suo» ristorante, nel palazzo che il padre comprò negli anni Ottanta, grazie all'amico Bettino Craxi, dissero allora.
Per la moda sono stati, e saranno ancora, tempi difficili. Cosa si gioca la Trussardi nell'anno che verrà? Vi basta mantenere quel che avete?
«Nel nostro settore il cambiamento è continuo, tutto va sempre tenuto sott'occhio. Che cosa ci giochiamo quest'anno? Quest'anno entriamo in una nuova fase. Abbiamo fatto una vera ristrutturazione, chiuso un'azienda che per noi era storica, a Bergamo. Abbiamo decentrato la produzione, che però resta in Italia, stiamo trattando la mobilità, la cassa integrazione per sessanta-settanta dipendenti. Ora, dopo la ristrutturazione, dobbiamo riprogettare il nome Trussardi. Mi piacerebbe che avesse in sé il senso del nuovo, ma senza dimenticare la sua storia.
Fare quel che ha fatto Gucci con Tom Ford?
«Più di una volta ci hanno proposto di assumere il Tom Ford del momento, ma io credo che ogni azienda abbia una sua unicità, se ti limiti a copiare, sbagli. Così come non credo che abbia senso limitarsi a riproporre la giacca che ha avuto successo venti anni fa, la borsa che nell'88 vendette molto. È una sfida, ma non sono sola, c'è la mia famiglia, ci sono i manager».
Estratto da Corriere della Sera del 29/11/04 a cura di Pambianconews