I cinesi? «Ci hanno dato una bella svegliata. Per risorgere, per rifondare il sistema. L'ultimo vero periodo di boom economico è stato tra l'80 e l'85, poi l'export italiano ha prosperato sulla svalutazione della lira. E la bolla speculativa della new economy, i crac finanziari, sono arrivati indipendentemente dalla Cina». Non ha dubbi Roberto Colombo, del Lanificio Colombo di Borgosesia, azienda che trasforma tonnellate di fibre nobili in tessuti e abiti di cashmere, alpaca, cammello, veleggiando sulla fascia altissima del mercato. La Cina, per lui, ha solo accentuato un problema macroeconomico già acuto. Ora è tempo di reazioni.
Massimo Calearo, presidente degli industriali di Vicenza, ha preso il toro per le corna: appurato che l'80% dei suoi associati considerava l'ex Celeste Impero come opportunità commerciale, si è rivolto alla Fondazione Italia-Cina per aiutare le piccole medie imprese del distretto (tra cui molte del tessile-abbigliamento) ad affacciarsi sull'enorme mercato asiatico: «Stiamo realizzando una mappatura dei distretti cinesi per capire che opportunità di sbocco ci sono nei singoli comparti produttivi e commerciali, come sono le infrastrutture, quali agevolazioni esistono per gli stranieri».
Il progetto si chiama Marco Polo e, nel disegno di Calearo, è tutt'altro che un'iniziativa localistica: «Lo abbiamo presentato in Confindustria, a Roma, e siamo entrati nella fondazione Italia-Cina come soci. L'iniziativa parte da Vicenza, ma si deve collocare nel contesto del sistema Paese». Intanto, in attesa degli esiti della mappatura, Calearo ha invitato l'ambasciatore cinese a visitare la zona: «Lo abbiamo portato nelle aziende, gli abbiamo fatto vedere le ville del Palladio, assaggiare la nostra cucina. Tra dieci anni, 50-100 milioni di potenziali turisti cinesi potrebbero arrivare qui e portare ricchezza con il turismo».
«Ci è costato otto anni di lavoro, una riconversione dei reparti produttivi, energia, fatica. A questo livello i cinesi non arriveranno presto», come spiega il presidente Luca Trabaldo Togna. A chi gli segnala, come la professoressa Weber, che il 25% dell'export cinese è concentrato sull'high tech, l'imprenditore biellese risponde tranquillo: «La tecnologia tessile si distingue da quella informatica, elettronica, meccanica. Ha un'impostazione artigianale. Non basta avere le macchine tessili italiane. Per il nostro cashmere, le nostre lane elasticizzate, ci sono voluti anni di sforzi. L'iter produttivo è talmente complicato che, se sbagliamo una singola operazione, dobbiamo buttare la pezza. Questo contravviene alla logica dei grossi numeri. E ci salvaguarda dal rischio di copia».
Uno sforzo che deve essere valutato nel lungo termine. «Bisogna dimenticarsi del ritorno economico a breve», sottolinea Carlo Rivetti, imprenditore che ha fatto della sua Sportswear Company e dei marchi che escono dall'azienda laboratorio di Ravarino, Stone Island e Cp Company, uno degli esempi di ricerca condensata in capi di vestiario: «Potrei dire che investiamo il 7 per cento annuo sul fatturato, ma è riduttivo. Per noi la ricerca è uno stato mentale, un capo creato tre stagioni fa è vecchio. Per questo non brevettiamo l'innovazione, la superiamo noi stessi. Abbiamo un knowhow tale che nessuno può scalzarci».
Estratto da CorrierEconomia del 1/03/04 a cura di Pambianconews