Questo pomeriggio a Biella gli imprenditori di uno dei distretti tessili più noti nel mondo si riuniranno in un'assemblea pubblica e raccoglieranno le firme. Vogliono dal governo un impegno preciso: che il denaro stanziato dall'ultima Finanziaria per il made in Italy vada davvero al made in Italy. A quelle aziende, cioè, che garantiscano che siano fatti qui almeno due dei tre passaggi produttivi (filato, tessuto, confezione). «Lo Stato, dice Alberto Brocca, direttore dell'Unione industriale biellese che ha indetto l'assemblea, in accordo con Camera di commercio, Confartigianato e Cna, se vuole veramente tutelare il lavoro italiano deve assegnare le risorse che ha stanziato, che non sono tante ma nemmeno poche, per reclamizzare il prodotto veramente italiano». Alfiere di questo movimento è, in un certo senso, Luciano Barbera, amministratore delegato del Lanificio Carlo Barbera, che da tempo si spende per un made in Italy «doc».
L'approccio al tema non è, però, così pacifico come potrebbe sembrare. E, infatti, gli imprenditori del tessile-abbigliamento sono divisi. Lo dimostrerà, in un certo senso, la stessa assemblea di Biella di oggi che potrebbe vedere qualche assenza importante (ma ci saranno nomi come i Fratelli Piacenza o gli Zegna Baruffa). Ma lo dimostrano anche le prese di posizione sempre più pubbliche da parte dei singoli imprenditori sull'argomento che sta a monte del marchio made in Italy: la delocalizzazione produttiva. Ormai avviata da molti e da molti considerata l'unica strada possibile per reggere l'urto della concorrenza asiatica, cinese in primo luogo, e la penalizzazione dei conti data dall'euro forte.
Enrico Bracalente, amministratore unico della società (Bag) che produce un marchio in ascesa come Nero Giardini, in questi giorni ha comprato mezze pagine di pubblicità sui quotidiani per dire no allo spostamento delle fabbriche. «La delocalizzazione impoverisce l'industria italiana, sostiene, e crea un danno non solo dal punto di vista economico ma anche al morale diffuso del Paese». E così, se il, marchio made in Italy arriverà, riporterà nelle Marche, dove opera, anche quell'unica parte che oggi realizza in Serbia. Un parere diametralmente opposto, il suo, a quello di Mario Moretti Polegato, il presidente di quella Geox che ormai svetta per la rapidità della sua crescita (230 milioni di euro di fatturato nel 2003 contro i 91,6 del 2000) e che è lo sponsor principale dei distretti in Romania, dove produce. «La delocalizzazione è un male necessario imposto dal mercato», dice Polegato. Secondo il quale «l'impresa del domani sarà quella intelligente: qui, in Italia, la creatività, l'organizzazione della produzione, il marketing; fuori, dove la manodopera costa meno, la produzione. Un fenomeno, aggiunge, che non è nato adesso: la cosa nuova è che oggi delocalizzano non solo le grandi industrie, che lo hanno sempre fatto, ma anche le piccole e medie».
Estratto da CorrierEconomia del 9/02/04 a cura di Pambianconews