Gli esportatori italiani stanno confrontandosi con una serie di fattori negativi concomitanti senza precedenti: dal supereuro (che incide assai negativamente sull'export) alla crescente concorrenza cinese e all'implosione della domanda di alcuni tradizionali partner come la Germania. Ciò ha prodotto e potrà produrre conseguenze gravi, specie in alcuni distretti tessili e calzaturieri dove sono a rischio decine di migliaia di posti di lavoro. Questa situazione di emergenza, forse non da tutti compresa, va guardata con preoccupazione e rispetto. Con preoccupazione perché eravamo ormai abbondantemente abituati alla costante emorragia di posti di lavoro della grande impresa, ma non a quella eventuale generata da distretti. Con rispetto perché il parametro di raffronto con la Cina, essendo basato su troppe componenti asimmetriche, non è davvero quello più corretto per poter sentenziare con leggerezza, come molti fanno, sulla competitività delle imprese del #'made in Italy'', fino a poco tempo fa indiscussa.
D'altro canto, le aziende del nostro Paese stanno dimostrando nel complesso straordinarie doti di resistenza e molte riescono persino a crescere in un contesto così negativo. C'è dunque da essere ancora una volta ammirati di fronte all'imprenditorialità italiana, anche se, protraendosi la crisi economica, non manca chi è tentato di riproporre la solita tesi (che sentiamo da quasi trent'anni) secondo cui il modello di sviluppo italiano (basato su settori tradizionali, distretti e Pmi fortemente radicati sul territorio) è ormai anacronistico e superato.
Eppure basterebbe dare un'occhiata all'ultimo annuario statistico delle regioni dell'Eurostat per capire quanto ci abbia portato lontano questo modello di sviluppo, nonostante la gigantesca mole del debito pubblico, le inefficienze strutturali del sistema Paese (alti costi dell'energia, burocrazia, congestione delle reti di trasporto, ecc.), i ritardi di alcune aree del Sud, il declino inarrestabile della grande impresa ed i recenti scandali finanziari che hanno bruciato risparmi. L'Italia presenta infatti ben nove regioni tre le prime 40 della Ue a 15 per Pil pro capite a parità di potere d'acquisto e una serie di dati eccezionali per livello di attività industriale e turistica. In ciò ci differenziamo nettamente dagli altri Paesi, soprattutto del Nord Europa, in molti dei quali, anche a seguito di delocalizzazioni spinte, le logiche degli importatori e dei grandi gruppi commerciali ormai prevalgono (anche in termini di lobby) su quelle degli industriali. II che, tra l'altro, non sempre rappresenta una garanzia per la qualità e la sicurezza dei prodotti e quindi un vantaggio per i consumatori.
Estratto da Il Sole 24 Ore del 8/01/04 a cura di Pambianconews