Ma i tedeschi sono superstiziosi più dei napoletani? Di sicuro quelli del quartier generale di Herzogenaurach, paesotto bavarese sede storica della Puma, quando hanno saputo delle trattative del loro uomo in Italia per entrare nell'azionariato di una squadra di calcio, e per di più della disastratissima Lazio, hanno fatto gli scongiuri. «La Adidas due anni fa si è comprata una quota del Bayern Monaco e gli investitori hanno reagito vendendo il titolo in borsa» spiega Luigi Fusaro, amministratore delegato della filiale italiana della multinazionale di scarpe e abbigliamento sportivo con il marchio del puma.
Ma la maledizione del pallone non si è ripetuta nel caso della Puma: da agosto il titolo a Francoforte è salito di un altro 20 per cento e oggi veleggia intorno ai 110 euro, contro i 70 di un anno fa.
Non si tratta di un investimento finanziario. «è un'operazione di marketing limitata nel tempo» sostiene Fusaro, che e riuscito con questa mossa a ridurre da 5 a 3 milioni di euro a stagione l'impegno fisso della Puma, sponsor tecnico della squadra di Roberto Mancini, legando bonus variabili a obiettivi precisi di qualificazione in campionato, Coppa Italia, Coppa Uefa, Champions league.
«Ma io ho creduto nella possibilità di risollevare il marchio, proprio partendo dal calcio, lo sport che ai tempi dei famosi calciatori Pelè e Maradona aveva reso famose e appetibili le scarpe Puma» racconta Fusaro. Dopo aver ottenuto dalla casamadre tedesca un aiuto finanziario per le prime sponsorizzazioni (i portieri Gianluca Pagliuca e Angelo Peruzzi), ha
convinto il numero uno Jochen Zeitz, dal 1993 alle redini di una società sull'orlo del fallimento, ad aprire nel 1993 una vera filiale in Italia.
Le cifre dimostrano che ce l'hanno fatta tutti e due. Zeitz oggi guida un gruppo con un fatturato che cresce a due cifre da anni: solo per il 2003 si parla di giro d'affari in aumento del 30 per cento a 1.281 milioni di euro (con obiettivo 2 miliardi nel 2009) e di un utile netto a 128 milioni di euro. Il tutto grazie a una cura basata da un lato su taglio dei costi, delocalizzazione produttiva (in Asia le scarpe, nell'Europa dell'Est l'abbigliamento), internazionalizzazione: dall'altro su un imponente rilancio dell'immagine, grazie anche ad accordi con stilisti come Jil Sander e di recente Neil Barrett che hanno spinto al massimo il contenuto moda.
Estratto da Panorama del 17/10/03 a cura di Pambianconews