Il marchio «made in Italy», introdotto con la proposta di Legge finanziaria appena presentata dal governo, sta creando qualche apprensione tra gli imprenditori della moda. Una «patente» che certifichi l'italianità dei prodotti è stata molto richiesta dalle associazioni di categoria, che intendono in questo modo tutelare le produzioni italiane. Ma già alle sfilate milanesi delle scorse settimane si percepiva un certo sconcerto. «La proposta non ha destato l'entusiasmo che avrebbe dovuto destare, conferma Laura Biagiotti, stilista e presidente del Comitato Leonardo, bisogna capire meglio come funzionerà. Credo che si debba ponderare bene un passo del genere, simulando i risultati possibili, per evitare errori in un momento difficile come questo. E che sia importante coordinarsi con la Francia, un Paese che ha problematiche simile alle nostre». Il tema, infatti, è complesso.
In attesa che l'Unione europea istituisca il «made in Ue» che, se approvato, sarà obbligatorio, il governo italiano ha deciso di introdurre un marchio «made in Italy». Si tratta di un marchio solo facoltativo, «perché altrimenti sarebbe in contrasto con le norme di non concorrenza interna», come spiega Adolfo Urso, viceministro alle Attività produttive e con delega per il Commercio estero, e che organismi come la Camera della moda e Pitti Immagine avrebbero invece voluto obbligatorio. Chi potrà veramente farne uso? Tutto dipenderà dai regolamenti che saranno emanati dopo l'approvazione della Legge finanziaria e che saranno varati d'intesa con le associazioni di categoria. Il punto critico riguarda la complessa organizzazione di cui si è dotata l'industria: in particolare quella che ha delocalizzato le sue produzioni e l'industria che produce per altri.
Prendiamo il caso della Aeffe della famiglia di Alberta Ferretti. Dice l'amministratore delegato Massimo Ferretti: «La nostra azienda produce Jean-Paul Gaultier e Narciso Rodriguez. Gaultier sta a Parigi, Narciso a New York, lì disegnano e progettano, ma a Cattolica, nella nostra azienda, sviluppiamo i loro disegni e li trasformiamo in collezioni, che poi commercializziamo. Si può apporre l'etichetta made in Italy? Oppure, questo marchio riguarderà l'intero processo creativo e distributivo?». Secondo quanto spiega Adolfo Urso, che di made in Italy si sta occupando attivamente, per produzione di un Paese deve intendersi la produzione «prevalente» o la «parte finale» di un prodotto realizzata in quel certo luogo. «Cosa s'intende per prevalente? Ciò in cui c'è il maggior valore aggiunto, che può essere diverso da settore a settore, per questo stenderemo il regolamento insieme alle associazioni di categoria», dice Urso.
Luigi Maramotti, della famiglia che controlla MaxMara: «Sono un liberista e non credo che si possa proteggere il made in Italy creando barriere all'ingresso. Piuttosto, se il nostro prodotto è troppo caro, questo dipende dalla struttura di produzione e su quella dobbiamo intervenire. Ma dovrebbe essere ben chiaro che made in Italy non è soltanto la parte manifatturiera, ma l'ideazione, la creatività, il progetto, il concetto di qualità. Soltanto questo permetterà veramente di superare il problema della manodopera cinese».
Estratto da CorrierEconomia del 13/10/03 a cura di Pambianconews