Mario Boselli è un uomo prudente per natura e non si agita. «è un momento molto difficile, che porterà grandissimi cambiamenti, ma non credo che dobbiamo disperarci», spiega il presidente della Camera nazionale della moda. E cita due dati che devono precedere, aggiunge, ogni riflessione sull'attuale stato delle cose: nel 2002, anno si cui si è scaricata la crisi americana seguita alle Twin Towers, il settore ha registrato un saldo attivo di 19 miliardi e 146 milioni di euro. Mentre la Francia, che secondo alcuni è il centro della nuova energia, ha denunciato un deficit di circa 6 miliardi di euro. Detto questo, ci sono altre due cifre, però, che rendono inquietante la situazione in generale: un calo del 2,5% del fatturato e dell'8,7% della produzione realizzata in Italia.
è un panorama piuttosto fosco, accidentato, quello disegnato dalle cifre. Boselli condivide, ma è convinto che il modello del made in Italy possa rinascere anche da questa sconfitta. «Viene da un passato glorioso dove tutte le macro-economie alle quali si riferiva funzionavano, e avrà un futuro forse più difficile da mantenere, perché si rivolge a Paesi in fase di costruzione come la Cina e la Russia, ma senz'altro buono. Il suo punto difficile è il presente, dove si è chiusa l'economia di ieri e quella nuova, di domani, si sta formando. In ogni caso direi che questa è la crisi del consumatore del made in Italy, più che del modello. Non c'è voglia di comprare, ma non dipende da carenze o difetti della merce».
La Camera della moda consiglia i suoi associati di investire nei Paesi che entreranno nella Comunità Europea, gli unici che strutturalmente hanno un Pil annuale che supera il 3 per cento. «L'allargamento a 25 farà bene all'Europa perché migliora il sistema competitivo delle imprese, commenta Boselli. Anche per questo in sede comunitaria si sta andando all'approvazione di un made in Ue obbligatorio, che identifichi l'origine del tessuto e della confezione». All'osservazione che questo potrebbe danneggiare la moda italiana, Boselli risponde di no. «Certo, non i grandi che sono conosciutissimi. Forse è un rischio per i medi e i piccoli, ma ci batteremo perché sia possibile aggiungere, se ne esistono i requisiti, anche l'etichetta di made in Italy».
Estratto da CorrierEconomia del 14/07/03 a cura di Pambianconews