La crisi di Gucci, uno dei nomi più prestigiosi della moda e del lusso, esplode di colpo e lascia quasi senza fiato. Nel giro di appena un trimestre la redditività dell'azienda crolla del 90 per cento. E nubi pesanti si addensano sulla società. Al punto che molti hanno pensato alla fine di una bella storia. Ma si squarcia anche un velo sul settore della moda e del made in Italy, intorno al quale in questi mesi è stata stesa una specie di cortina del silenzio. Nel senso che la crisi c'è, è grave, non sarà breve, e non è detto che tutti riescano proprio a vedere spuntare l'alba della ripresa. Parecchi, probabilmente, saranno già usciti di scena prima.
In questo senso la crisi Gucci, un misto di avversa congiuntura e di qualche errore aziendale, è abbastanza esemplare di come vanno le cose in questo settore. Un esperto di moda e lusso nei giorni scorsi ha detto che il 2003 per le aziende del settore non è un anno di dodici mesi, ma di nove. I primi tre, infatti, sono stati mesi negativi, che è meglio dimenticare. Forse è vero. Infatti è proprio nei primi tre mesi dell'anno che si consuma il disastro di Gucci. Le vendite scendono quasi del 7 per cento, ma l'utile operativo prima degli ammortamenti è sceso dell'88,7 per cento.
Nella moda, insomma, sta accadendo quello che accade anche nell'automobile. Ad andare in crisi ci si può mettere anche una notte o due giorni. Poi, per tirarsi fuori, occorrono anni e anni. E strada facendo si scoprono, naturalmente, errori e magagne, che emergono appunto solo nei momenti di crisi. Nel caso di Gucci, ad esempio, gigantismo e troppe acquisizioni poco redditizie, ma anche clientela non troppo consolidata e parecchie attività che non rendono niente o quasi (se si escludono l'abbigliamento, la pelletteria e i cosmetici). Ma poi, al fondo, c'è un'osservazione che indica, per Gucci, un lungo e inevitabile percorso di riorganizzazione. Nel 2003, nonostante la crisi, la Sars, i pochi turisti, e tutto il resto, Hermes riuscirà a guadagnare il 17 per cento sulle vendite. Gucci si fermerà molto probabilmente all'8 per cento, meno della metà.
Insomma, per Gucci vale quello che vale per l'intero settore del made in Italy. Non è sufficiente aspettare che passi la crisi congiunturale per tornare a macinare soldi come prima. Le aziende vanno ridisegnate e messe in grado di navigare anche dentro i tempi nuovi. Che sono tempi di meno ostentazione, di un po' più di sobrietà, e di una certa quale attenzione al denaro. In un certo senso è come se la Milano da bere fosse morta un'altra volta.
Vedi tabella che segue
Estratto da Affari & Finanza del 7/07/03 a cura di Pambianconews