Sipario chiuso sulle ultime assemblee separate per Sistema moda Italia e Associazione tessile: a ottobre ci sarà una sola associazione industriale del settore. Ati ha raccolto le aziende cotoniere e della nobilitazione martedì e ieri è stata la volta dei produttori di abbigliamento, lanieri e serici della Smi. Alla fine il messaggio è identico: per difendersi dall'aggressività dei concorrenti, è necessario dare un'identità più forte al made in Italy, sfruttare il valore aggiunto del prodotto italiano di moda.
Tre i punti della strategia, spiegati dal presidente di Sistema moda Italia, Vittorio Giulini: «La creazione del marchio #'made in Italy d'oro'', facoltativo, per i prodotti che effettuano in Italia almeno due fasi importanti della lavorazione, per esempio tessitura e confezione: un marchio che richiederà un'adeguata promozione. La tracciabilità, cioè l'obbligo di indicare il Paese in cui viene realizzata ogni fase della produzione. L'etichetta made in Eu, Unione europea, come succede negli Stati Uniti per il made in Usa, a cui volontariamente si potrebbe abbinare il Paese d'origine».
Tre carte da giocare subito, tra Roma e Bruxelles, con l'aiuto del Governo, assicurato dal viceministro per il Commercio estero, Adolfo Urso. «Ne abbiamo già parlato e potremmo rilanciare il tema già il 6 luglio a Palermo, durante il consiglio europeo del commercio estero».Il problema sarà superare la ritrosia dei Paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, che hanno smantellato la loro industria tessile e comprano fuori dall'Europa buona parte dell'abbigliamento. Dall'altro lato, la stessa etichetta made in Eu è destinata a essere cucita su giacche italiane e calze polacche. Un ostacolo per i puristi e un compromesso per gli altri, perché non penalizza chi ha delocalizzato. Non mancano gli scettici, convinti che il marchio dell'azienda dica al consumatore molto più dell'origine.
Vedi tabella che segue
Estratto da Il Sole 24 Ore del 27/06/03 a cura di Pambianconews