Durante il Salone del mobile, che oggi chiude i battenti, il designer AIdo Cibic, ha patrocinato «Shanghai Made in Italy», dieci progetti per la tavola di un pool di giovani studenti cinesi della Tongiy University; Renato Minetto presidente di Editoriale Segesta ha dichiarato entusiasticamente di essere in procinto di lanciare la versione cinese di Abitare, una delle sue più importanti riviste. Anche nel settore dei mobile e del design, insomma, la Cina è diventata uno dei temi principali. E dopo grandi come Natuzzi sta contagiando anche gli imprenditori medio piccoli.
Sono oltre 700 le aziende italiane, tra società a capitale misto e joint ventures, in attività nelle 20 province industrializzate del Celeste impero secondo i dati riportati sul sito dell'ambasciata italiana. Ma il numero degli operatori italiani è nettamente superiore, racconta Mario Tschang, presidente di Agenzia per la Cina, la società consortile che ha 135 affiliate dirette più oltre un migliaio in joint venture: «Di queste, circa un 30% opera nel campo del design». Palazzo Lombardia a Shanghai, un edificio costruito ad hoc nel '96 da un pool di imprenditori lombardi con l'aiuto della Regione, ne è la sede. E' qui che fa capo, per esempio, Futura Shanghay Furniture Ltd, una delle associate emanazione cinese della omonima italiana di Sovico, che da tre anni a questa parte costruisce divani letto per il mercato Far East con una produzione di 1.200 pezzi al mese, un fatturato 2002 di circa due milioni e mezzo di dollari e una previsione di incremento per quest'anno che supera il 40%.
La Nemo, azienda dei gruppo Cassina, che in tempi diversi ha acquisito due società ad hoc: l'americana Illuminating Experiences Llc già munita di produzione cinese per un valore di tre milioni di dollari all'anno, e la cinese Nemo Spa. Qui si produce Leo, lampada da tavolo in 20 mila esemplari l'anno destinati al mercato europeo per un valore netto di circa un milione e mezzo di euro: «Un'operazione interessante, spiega Corrado Gattoni, amministratore delegato, ma la produzione in Cina va costantemente monitorata per definire standard, metodologie e tecnologie perché lì hanno una predilezione per le produzioni di massa e il cinese, se lasciato a se stesso, è poco suscettibile alla qualità».
Estratto da CorrierEconomia del 14/04/03 a cura di Pambianconews