«I distretti industriali non sono un modello esportabile, clonabile, imponibile dall'alto, come vorrebbe il viceministro Urso. Prendiamo piuttosto i giovani imprenditori stranieri e portiamoli qui a formarsi: a Prato, a Montebelluna, a Vicenza». Il cinquantaduenne Adriano Sartor è socio al 25% di Stonefly, azienda veneta di scarpe, (87 milioni di euro il fatturato stimato 2002, +5,5%, con un utile lordo previsto dell'8% sul giro d'affari), è presidente di quel club che raduna una quarantina di distretti industriali, sul centinaio che popolano l'Italia: con 35 miliardi di euro fatturati, rappresentano il 35% dell'export del made in Italy.
Perché il distretto non è clonabile? «Perché è fatto da imprenditori che, pur essendosi raggruppati, non si muovono all'unisono. Ognuno decide quel che è meglio per la propria azienda. Esportare un distretto vuol dire esportare tutta la filiera e questo non si può ottenere con un diktat».
Ma come? Proprio la sua azienda, in Romania, guida 600 aziende italiane, tutto il distretto della calzatura… «Non è un distretto che ha deciso di spostarsi. è nato per implementazione interna. Si è partiti otto anni fa con la produzione di scarpe. Poi hanno cominciato a muoversi le attrezzature della produzione, poi alcuni accessori per calzature, le suole, le forme… Non è capitato improvvisamente. Non funzionerebbe. So per certo, per esempio, che il distretto della sedia di Marzano ha un'enorme difficoltà a spostarsi nell'Est. è partita l'azienda più importante, Calligaris, con alcuni impianti in Romania, e fra poco nascerà intorno qualcos'altro. Ma chissà quando e chissà come. No, non si può fare così, pronti via. Non è la Formula 1».