Nel mondo del gioiello fatica a decollare il prodotto branded: i marchi pesano per appena il 4% del totale (e per il 12,5% dell'alto di gamma), con un valore di soli 5 miliardi di dollari, pari alle vendite al dettaglio nel nostro Paese. Per le 342 imprese industriali e le 9.690 aziende artigianali la competizione diventa sempre più agguerrita, anche per l'ingresso in campo di paesi di nuova industrializzazione che stanno già sottraendo quote nelle fasce più basse. Mentre i big della moda e del lusso iniziano ad andare a caccia di opportunità, tra i timori e le speranze dei piccoli.
Di questi temi si è parlato ieri al Forum del gioiello, organizzato a Milano da Club degli Orafi Italia e Sda Bocconi. «Chi è più grande, ha detto Guido Corbetta, co-direttore Master in fashion management di Sda, ha una maggiore libertà strategica, ma potrebbe soffrire di più per l'ingresso di grandi gruppi del fashion e del lusso». A ergersi a difensore dei piccoli è stato Franco Cologni, senior executive director di Richemont International, il colosso del settore che controlla tra gli altri il leader mondiale Cartier: «Sembra che ci sia un arrembaggio e che qui tutti siano degli incapaci, tranne i grandi marchi e gli stilisti. è vero che l'industria orafa made in Italy deve evolversi in creatività, ma può pure scegliere di mettersi al servizio di terzi: partner, non schiava»
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Conclude Francesco Minoli, ad di Pomellato: «Noi orafi dobbiamo smetterla di pensare che la nostra attività sia valida solo perché trasformiamo oro: piuttosto dobbiamo attrezzarci per clonare velocità e sostituzione del prodotto come nella moda. Noi l'abbiamo fatto e il 50% del fatturato riguarda una collezione ad hoc lanciata ogni anno».