Se nell'ultimo decennio la moda made in Italy ha perso quote nell'export mondiale, precipitando di 2,93 punti percentuali all'8,6% a dispetto del traino dei tassi di cambio, la colpa non è soltanto della diminuzione della ‘pura’ competitività del sistema rispetto ai concorrenti (-1,82%). Le imprese del settore si sono infatti scontrate con ostacoli strutturali che hanno ulteriormente peggiorato la situazione: la scarsa diversificazione dei mercati di sbocco, ad esempio, ha pesato sulla riduzione della quota dell'export per lo 0,86%, mentre un altro 0,25% in meno è imputabile all'inadeguatezza del portafoglio prodotti.
L'Europa, che pesa per quasi i tre quarti sull'export italiano dell'intero settore, sconta da tempo un tasso di espansione della domanda interna inferiore alla media internazionale. «La non adeguata diversificazione degli sbocchi, aggiunge la ricerca, rappresenta circa un terzo della perdita complessiva della quota del made in Italy sull'export mondiale. L'occasione mancata riguarda gli Stati Uniti: nel decennio la domanda di moda negli Usa è cresciuta significativamente, passando dal 25% sul totale dell'import mondiale al 32,5 per cento. Purtroppo la quota dell'Italia sul mercato a stelle e strisce è scesa nel contempo dal 5,77 al 4,45%».
Insomma, la moda made in Italy ha mostrato una insufficiente capacità di adattamento nel contrastare i nuovi concorrenti nei mercati tradizionali e nell'inserirsi con determinazione in quelli a più alta crescita, come gli Usa. Un dato resta però positivo: la persistenza di un'elevata differenza tra i valori medi unitari dei prodotti italiani e quelli di un concorrente temibile come la Cina, conclude l'estratto della ricerca, elaborata da Hermes Lab per la VI commissione Attività Produttive del CNEL, «può essere interpretata come un indice di bassa sostituibilità del made in Italy derivante da una sua maggiore qualità».