Le cifre parlano chiaro: l'87,9 per cento, cioè la quasi totalità della delocalizzazione produttiva italiana del settore abbigliamento, maglieria e corsetteria avviene nell'Europa centro-orientale. La parte del leone la fa la Romania con circa un terzo del totale, ma ci sono anche la Croazia con l'11%, l'Ungheria (7,4%), l'Albania, la Polonia, Paesi storici del contoterzismo italico. Accanto a loro, ecco le nuove frontiere del perfezionamento passivo, come Moldavia (3,6%) e Ucraina (4%), Montenegro e Bielorussia: insomma quei Paesi che a causa del livello di vita e dei salari ancora bassissimi attraggono gli imprenditori sempre in cerca di tagli ai costi nei segmenti labour intensive.
Oppure, il decentramento produttivo comincia a scoprire Stati come la Lituania e l'Estonia, che hanno una grande tradizione nel tessile, anche se magari durante il regime comunista tutto quello che facevano erano le divise per l'armata rossa.
Quando si parla di delocalizzazione, però, è bene fare dei distinguo. Per la piccola industria italiana che mira solo a delocalizzare le fasi del lavoro in cui il costo della manodopera incide di più, e poi reimporta tutto in Italia, Paesi come l'Ungheria o la Polonia hanno fatto il loro tempo. Vi si lavora ancora, specie nelle regioni meno sviluppate. I Governi hanno poco interesse a questo tipo di aziende che portano, certo, posti di lavoro, ma non arricchiscono il
tessuto industriale locale e possono senza problemi trasferire il lavoro in un altro Paese se i salari sono più bassi e le infrastrutture non troppo scadenti.
Diversa è invece l'azienda che mira non solo a delocalizzare ma anche a internazionalizzarsi, cioè, alla lunga, a produrre una serie di articoli in loco e magari a cercare di penetrare nel mercato locale o in quelli limitrofi. In tal caso, alcuni Paesi danno molte più garanzie di altri, sia dal punto di vista della qualità che della logistica. E offrono più vantaggi e chi vuole radicarsi davvero sul territorio.