Al posto del semplice taglio del nastro, questa volta la Hong Kong fashion week si è aperta con il più tradizionale rito di dipingere gli occhi del dragone, considerato di buon auspicio in tutto l'Estremo oriente. Chissà se basterà per risollevare l'economia della ex colonia britannica, che la settimana scorsa ha celebrato il quinto anniversario del passaggio alla Cina, attualmente alle prese con stagnazione e addirittura proteste in piazza. Anche qui come in Italia, il settore si trova nella spasmodica attesa di una ripresa.
Nei primi quattro mesi del 2002 l'export di abbigliamento e accessori è diminuito dell'11% a 5,822 miliardi di dollari americani. Gli Stati Uniti, che rappresentano il primo mercato di sbocco con un'incidenza del 32,8% sul totale delle esportazioni, hanno assorbito merce per 1,908 miliardi di dollari, in calo dell'11% rispetto allo stesso periodo dell`anno precedente. Al secondo posto si piazza la Cina con 657 milioni di dollari (-1%) davanti alla Gran Bretagna e al Giappone (-21%).
E secondo un'indagine condotta da Morgan Stanley riportata dal quotidiano locale The standard, la flessione delle esportazioni sarebbe imputabile non tanto all'11 settembre quanto al cosiddetto effetto Cina, ossia alla maggiore concorrenza dell'ex Catai nei confronti dei «piccoli dragoni» (Hong Kong appunto ma anche Taiwan, Corea del Sud e Singapore). Secondo la banca d'affari americana, l'economia basata esclusivamente sulle esportazioni ha esposto questi paesi all'accresciuta forza economica della Cina. A partire dal costo del lavoro. Per creare un ambiente più competitivo, Morgan Stanley suggerisce ai piccoli dragoni di trasformare le loro economie spostando capitali dalla produzione allo sviluppo di proprietà intellettuale e servizi alle imprese ma anche di svalutare le monete per minimizzare il «China effect».