Una capitalizzazione fra 2,5 e 3 miliardi di euro? A questi prezzi Patrizio Bertelli, lo scoppiettante padre-padrone del gruppo Prada ha battuto il pugno sul tavolo. E ha detto no ai banchieri riuniti mercoledì scorso ad Amsterdam: «Niente Borsa».
Certo, i banchieri non erano contenti di questa scelta. Per la terza volta nel giro di un anno, infatti, il gruppo italiano rinunciava alla quotazione a un passo dal traguardo. Sul piano dell'immagine non si trattava certo di una bella figura.
è stata una «decisione presa d'intesa con gli istituti di credito» avrebbe recitato il comunicato emesso alla fine della riunione. In ogni caso, nonostante il livello piuttosto alto dell'indebitamento (quasi 1 miliardo di euro a fine 2001) il bond convertibile da 700 milioni emesso a dicembre da Deutsche Bank consente a Prada di camminare con le proprie gambe rimandando la quotazione di almeno 18-24 mesi e forse più se sarà condotta una politica prudente sul piano degli investimenti.
Oggi nel panorama del lusso internazionale si fa strada la convinzione che la griffe italiana sia una preda che cadrà prima o poi nelle mani di gruppi più ricchi di capitali e dalla redditività maggiore. Un'opinione che viene propagata in modo obliquo dai maggiori concorrenti ben felici all'idea di poter mettere le mani su griffe come Prada o Miu Miu. Ma si tratta anche di un giudizio diffuso che fa passare in secondo piano gli effetti del progetto di ristrutturazione varato da Bertelli. Secondo fonti finanziarie, infatti, già nel secondo trimestre il gruppo potrebbe contare sugli effetti positivi di un robusto taglio dei costi e di un piccolo aumento dei prezzi che il mercato avrebbe assorbito senza difficoltà.