Mai così bassi i volumi di scarpe realizzati in Italia da metà anni 70 (375 milioni di paia, -3,7%o), ma mai così alto il valore: 8.670 milioni di euro nel 2001 (+4,8%). Ancora: mai così bassa, almeno dal '97, la quantità di calzature esportata con l'etichetta made in Italy (354 milioni, -2,4%) ma, di nuovo mai, così elevato il valore, cioè 7.231 milioni di euro (+9,5%).
Sembra una contraddizione, quella vissuta l'anno scorso dall'industria calzaturiera (7mila imprese con una dimensione media inferiore ai 10 addetti). Più semplicemente, le imprese sono davanti a un bivio: continuare a presidiare la fascia media del mercato (in quella bassa non è possibile competere) e, ovviamente, in questo caso è necessario decentrare la produzione (o parte di essa) in Paesi a minore costo della manodopera per difendersi dagli attacchi di produttori dell'Europa dell'Est; del bacino del Mediterraneo e dell'Asia. Oppure insinuarsi nella fascia medio-alta e alta che, però, non è di enormi dimensioni: rispettivamente, il 6 e il 9% del mercato mondiale, in cui l'Italia rappresenta il 35 e il 25 per cento.
«Siamo tutti ovviamente preoccupati, ha detto ieri a Milano il presidente dell'Anci, Antonio Brotini, durante l'assemblea annuale, nella quale non si è azzardato a fare previsioni sul 2002 ma ci vogliamo sottrarre a paralizzanti allarmismi. Bisogna essere capaci di trasformare questa fase da handicap a opportunità. Come? Gestendo i profondi cambiamenti sul piano delle tecnologie, delle scelte di mercato, delle politiche di servizio al cliente. Ma anche facendo pressione per una forte liberalizzazione degli scambi: ben il 60% dei mercati mondiali potenziali è chiuso alle nostre esportazioni e questo fornisce l'esatta dimensione di quanto ancora si possa e si debba fare per incrementare il nostro business all'estero».