Il primato della moda italiana in Europa è pesante. Le distanze con gli altri Paesi sono incolmabili, un po’ per merito del made in Italy, che si è saputo imporre ovunque, e un po’ per le scelte di altri Paesi, che hanno indebolito l’industria manifatturiera per lasciare spazio all’hi-tech, nella convinzione di prepararsi al futuro. Nella grande casa tessile italiana sono sempre più evidenti le crepe causate dai costi, dalla concorrenza e dall’impossibilità di sopperire con qualità e design alle carenze competitive.
Il primo posto nella classifica del tessile europeo è il frutto del lavoro di un alveare di imprese: sono più di metà delle aziende del settore nell’Unione europea.
Scorrendo i dati forniti da Euratex, si nota che qualcuno ha smantellato quasi completamente la propria industria tessile, come il Regno Unito, dove in dieci anni le imprese si sono dimezzate (oggi sono 2.304). La Francia ha spostato parte della produzione dall’altro lato del Mediterraneo e ha visto diminuire le imprese
anno dopo anno: sono appena 1.838, ma ognuna ha quattro volte il numero di addetti di un’azienda italiana.
Del resto, il tessile richiede più investimenti produttivi e filati e tessuti si possono facilmente comprare altrove per poi realizzare vestiti a casa propria. L’Italia è rimasta ferma. Un immobilismo che si traduce in un lungo passo indietro quando si confronta la capacità competitiva. Il fatturato complessivo del settore nel 2000 era di 28,3 miliardi di euro, praticamente identico a quello del 1990. La cifra che vale quasi il 28% dei 102 miliardi di euro di ricavi dell’Unione europea, ma il primato crolla quando si parla di fatturato per addetto: in Italia è cresciuto di appena 1.800 euro in dieci anni, arrivando a 70.796 euro.